Natalia Ginzburg nasce nel 1916 a Palermo da Giuseppe Levi e Livia Tanzi; il padre è il celebre scienziato antifascista di origine ebraica, mentre sua madre è la sorella di Drusilla Tanzi, la “Mosca” moglie di Eugenio Montale. Natalia trascorrerà tuttavia la sua vita a Torino dove, durante gli studi classici, scopre la vocazione letteraria. Nonostante la quasi totale assenza della scrittrice nei manuali di letteratura delle scuole italiane, Natalia è una delle intellettuali che più hanno orientato e raccontato il Novecento del nostro paese.
Lessico famigliare è il romanzo autobiografico uscito nel 1963, anno in cui vinse il Premio Strega e ottenne un clamoroso successo di pubblico e critica.
Il titolo contiene in sé il contenuto dell’intera opera; la scrittrice ha voluto rendere concrete le tradizioni della sua famiglia, i modi di dire, i ritornelli tipici della sua intimità familiare. L’obiettivo principale era proprio quello di raccogliere quel “vocabolario di famiglia” e farne un libro vivo di memorie che riguardano la vita dell’autrice e della sua famiglia dagli inizi degli anni Venti agli inizi degli anni Cinquanta.
Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente:
e ogni volta che, sulle tracce del mio vecchio costume di romanziera, inventavo,
mi sentivo subito spinta a distruggere quanto avevo inventato.
La prima cosa che ci dice la scrittrice nella prefazione all’opera è che si tratta di una storia vera. Il testo è organizzato in quarantasette paragrafi, dove i fatti non sono raccontanti in ordine cronologico ma seguono il flusso dei ricordi; presente, passato e futuro si intrecciano, si confondono e sovrappongono. Ricordi, azioni e sensazioni affiorano nella mente di Natalia freneticamente e disordinatamente: il corso naturale della memoria determina salti temporali, ritorno sui personaggi, analessi, frammentazioni di vicende e numerose omissioni di parti della storia.
Il tratto distintivo dell’opera è la capacità di rendere con estrema chiarezza le abitudini, i nomignoli, i momenti intimi della famiglia Levi, che diventano così i momenti universali di ogni famiglia:
Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: – Non fate malagrazie! […] Non fate sbrodeghezzi!-
Oltre al continuo utilizzo del dialetto e di neologismi coniati tra le mura domestiche, centrale è la voce del padre Giuseppe, un personaggio burbero e affettuoso allo stesso tempo. Egli impone nel linguaggio di chi lo circonda le parole da lui inventate; basta un termine particolare per far sentire Natalia e i suoi fratelli a casa. L’ambiente domestico del racconto infatti non viene creato tanto dai luoghi o dai gesti, quanto da questo lessico unico nel suo genere. L’essenza della famiglia di Natalia risiede in piccole espressioni ricorrenti che colorano tutto il romanzo.
Il tempo dell’infanzia sembra ricevere maggiori attenzioni e premure da parte dell’autrice; tuttavia, Natalia bambina, ragazza, madre non emerge mai, preferisce piuttosto guardare da un angolo le antiche sensazioni anziché buttarsi a capofitto nella sua storia.
Il lessico della famiglia è immune al trascorrere del tempo e la memoria è pronta a ricrearsi nonostante le strade diverse intraprese da tutti i personaggi. Casa Levi è così casa di tutti noi, in quanto incarna i modi di dire, di fare, i codici non scritti di ogni famiglia.
Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: ‘Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna’ o ‘De cosa spussa l’acido solfidrico’, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole.
Ilde Sambrotta