Chissà cosa avrebbe pensato Filippo Tommaso Marinetti, se, vivo e vegeto nell’ Ottobre del 2021 per uno scherzo da fantascienza, avesse deciso di sfrecciare per le strade con la sua Cadillac alla volta di un cinema – perché certe passioni non muoiono mai; se avesse poi pagato il biglietto per assistere alla proiezione di Titane, il film vincitore della Palma d’Oro a Cannes tra mille polemiche e altrettanti osanna; e se, alla fine, seduto comodo sulla poltrona e ben distanziato, gli fosse passata davanti agli occhi la scena di sesso (fecondo!) tra un auto – maschile come lui sognava ne “Manifesto del Futurismo” – e una donna.  

Totalmente disinteressato a queste congetture, il presente offre d’altro canto alcune certezze.

Julia Ducournau, parigina classe 1983, percorre a tavoletta il circuito di genere già tracciato dal precedente Raw – Una cruda verità, sterzando bruscamente a ogni punto di svolta della trama con buona pace delle nostre aspettative. 

Protagonista della pellicola è Alexia, che balla in calze a rete sopra i cofani delle macchine per vivere accanto al suo unico – stranissimo – amore, conosciuto quando, da bambina, si è sottoposta a una lunga operazione chirurgica dopo un testacoda contro il guardrail. Non appena l’équipe medica le innesta una placca di titanio nel cranio, la piccola infatti si risveglia elargendo espressioni astiose ai presenti – genitori, infermieri, dottori -, tranne alla quattro ruote del padre: per lei (per lui?) solo carezze, baci e abbracci. E visto che alla misantropia non c’è mai fine, l’alienazione sentimentale di Alexia, impersonata in età adulta dalla modella Agathe Rousselle, subisce un’accelerazione così drastica da degenerare in sfrenata pulsione omicida. Almeno fino alla soglia di un altro cambio di passo stilistico e narrativo, stavolta focalizzato sull’incontro-scontro con un pompiere in preda alla solitudine e alla paura di invecchiare.

Giusto per aggiungere un po’ di azzardo interpretativo sul fuoco, sarebbe interessante provare a leggere la transizione finale di Titane su un quadro totalmente bianco come la più suggestiva dichiarazione d’intenti che la regista francese potesse firmare. Al di là delle ipotesi di vezzo artistico o preferenza personale, perché non paragonare il bianco, frutto della combinazione di tutti i colori dello spettro visibile, alla titanica impresa a cui sono votate le quasi due ore di girato, ossia fondere assieme il numero più alto possibile di categorie di cinema, temi, discorsi?

Omaggi cronenberghiani e dramma familiare; rivalsa violenta di una promising young woman, salvo poi far partire una strage senza esclusione di target – muoiono donne lesbiche, molestatori bianchi, afroamericani, figure parentali – ; gag musicali e body horror; un lavoro di decostruzione degli stereotipi di genere, poggiato sì sull’ibridismo e la deformazione dei corpi, ma anche sul rovesciamento della binarietà dei toni delle luci e degli sguardi rivolti da/verso uomini e donne. 

Proprio in forza di tali impressioni, molti commentatori si sono sentiti legittimati a scrivere espressioni altisonanti del calibro di “cinema del futuro” e “manifesto della fluidità”, senza forse realizzare che il peso specificamente politico di tanti punti chiave della teoria femminista moderna e post-moderna – Laura Mulvey, Jude Ellison Sady Doyle, Donna Haraway – non verrà mai tradotto a pieno per immagini, nel momento in cui il personaggio principale assurge a una sorta di Madonna 2.0 incinta del metallo. 

E se un ultimo atto di fede riesce a spezzare i muscoli e le ossa che pulsano sotto la pelle della rivoluzione (mancata), allora la vera domanda da porre agli spettatori e spettatrici è la seguente: credete nel nuovo cult(o)?

Sara Masini

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