Ué Spielberg, facc u selfie
Sarebbe interessante condurre un sondaggio su cosa pensino effettivamente i giovani dei film sull’adolescenza, ammesso che li vadano a vedere, visto l’altissimo rischio di ritrovarsi seduti vicino ai propri genitori in sala. Infatti, come nel caso delle innumerevoli discussioni pedagogiche da social network (con l’immancabile citazione apocalittica del prof. G.), i film sull’adolescenza vengono fatti quasi esclusivamente da registi “non più tanto adolescenti”, che provano alternativamente a: fare i conti con qualche trauma o esperienza formativa; riesumare qualche ricordo in cerca dell’ispirazione che forse è venuta a mancare; guardare dalla prospettiva dei genitori quello che sta succedendo ai loro poveri bambini; denunciare con vario grado di indignazione condizioni e situazioni marginali; esaltare la spontaneità ed esuberanza dell’età più bella (che poi è tutto da dimostrare).
Ma cosa verrebbe fuori se si desse effettivamente a due giovani del rione Traiano di Napoli la possibilità di filmarsi liberamente con un Iphone?
Selfie è il racconto in presa diretta della vita di Pietro e Alessandro, è la cronaca senza filtri delle difficoltà che devono affrontare quotidianamente per tirare avanti in uno dei quartieri più difficili di Napoli, dell’elaborazione personale che fanno del lutto legato alla morte del loro amico Davide Bifulco, ucciso da un carabiniere la notte del 5 settembre 2014, dei piccoli sogni e delle grandi speranze di questi due inseparabili amici.
Un progetto che sulla carta (o se chiedete a certi produttori) è destinato al completo fallimento o, nel migliore dei casi, a produrre come risultato immagini di pessima qualità e di scarso impatto.
Ma per fortuna, come nel caso delle discussioni pedagogiche, se si lasciano spazio, voce e libertà d’azione ai ragazzi, se si dà fiducia nei propri mezzi e nella capacità di esprimersi, si possono ottenere dei risultati inattesi, come il David di Donatello per il miglior documentario 2020.
Pietro e Alessandro affinano, infatti, nel corso del film un talento narrativo che pian piano si rivela in tutta la sua efficacia: sanno mettersi in posa in modo scaltro e giustamente compiaciuto per l’attenzione che ricevono, sanno inquadrare la realtà che li circonda in modo da ottenere l’effetto desiderato, hanno il tocco allenato di chi è cresciuto con i video visti dal telefonino. Non solo, sanno anche mettere le proprie emozioni in primo piano senza fare sconti agli spettatori, vogliono far conoscere e gridare la miseria che li circonda, sperano che dietro alle lenti del telefonino si nasconda una svolta che li faccia uscire dal loro eterno presente fatto di frustrazione e smarrimento.
Già, perché in questo prezioso esperimento narrativo non c’è traccia di quella criminalità patinata e pulp che fa ormai pienamente parte del pacchetto Made in Italy, così come non c’è nessuna sceneggiatura a tenere alto il ritmo della storia come nelle grandi produzioni che hanno fatto della mafia e della camorra degli show per famiglie.
In Selfie ci sono “solo” due ragazzi che stanno cercando la propria strada tra mille stimoli e sensazioni contrastanti. C’è la noia dei pomeriggi di chi non ha un soldo in tasca, l’indecisione di chi sa che dovrebbe fare qualcosa (perdere peso, studiare, trovare un lavoro) ma non sa da dove iniziare, la tristezza per la perdita di un amico, la rabbia di chi non riesce ad esprimere tutto quello che ha dentro.
Ma ci sono anche le gioie che nascono dei gesti più sinceri, l’allegria di un pomeriggio al mare in mezzo alle case dei ricchi che vivono in un altro mondo, l’emozione di chi progetta castelli in aria sapendo che quei piccoli voli sono comunque un modo per sfuggire a ciò che sta intorno.
Quella di Selfie è una giostra di personaggi e situazioni troppo veri per essere reali, di facce che sembrano maschere, tanto sono perfettamente caricaturali, di incontri ravvicinati con un mondo che, se non ci fossero Pietro e Alessandro, rischierebbe di passare inosservato e di svanire nell’oblio.
Trovate Selfie su Mubi e su RaiPlay
Marco Lera