Marmo che palpita come carne, muscoli contorti e smorfie affamate, ecco cosa ci colpisce ad una prima rapida occhiata. Scolpita dall’artista francese Jean Baptiste Carpeaux tra il 1857 e il 1860, l’opera raffigura con notevole e cruda veridicità la tragica storia del conte Ugolino Della Gherardesca, condottiero e politico pisano, di famiglia ghibellina, avvicinatosi in seguito al partito guelfo. Eletto capitano del popolo della città di Pisa (filo-ghibellina), cedette alcuni castelli a Firenze e Lucca per garantire la pace. Accusato di tradimento, venne rinchiuso insieme ai figli presso la Torre della Muda, condannato a morire di fame.
Dante ne parla nel suo capolavoro, la Divina Commedia, Inferno – Canto XXXIII, in cui è dannato tra i traditori della patria, nell’Antenora (2° zona del 9° cerchio), mentre morde con furioso sdegno l’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini, colui che con l’inganno lo tradì imprigionando lui e i suoi figli. Ne seguì una leggenda impietosa e molto probabilmente esagerata, che narra gli ultimi giorni di vita del conte. Egli, piegato dai morsi della fame, si morse prima le dita delle mani, per poi nutrirsi dei suoi stessi figli e nipoti morti a causa della fame. Infatti, secondo Dante, i prigionieri morirono dopo una lunga agonia causata dal digiuno, ma, prima di morire, i figli di Ugolino pregarono il padre di cibarsi dei loro corpi:
“Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, or tu le spoglia”.
Risulta tuttavia assai poco credibile l’accaduto, in quanto Dante non conferma mai che il fatto avvenne effettivamente, lasciandoci una libera interpretazione. È inoltre difficile pensare che Ugolino, ormai ottantenne e vista la situazione, riuscisse a sopravvivere alla propria progenie, di gran lunga più resistente a livello fisico.
L’opera, esposta presso il Metropolitan Museum of Art di New York, è composta da cinque personaggi, che si stagliano con prorompente plasticità non solo nella perfetta resa anatomica e in una composizione ben assemblata a tutto tondo, ma soprattutto nei dettagli, che ci offrono una tangibile sensazione di nodosità e nervosismo, reale e drammaticamente intensa. L’artista ci materializza di fronte a quella scena, ci immerge fino alle viscere in quell’atmosfera straziante della prigione. Ci sentiamo disperati, terrorizzati, avvertiamo la morsa della fame.
Nulla è mai stato così penetrante come l’espressione di Ugolino, roso di rabbia, in totale conflitto esistenziale, consumato da quell’impulso così animalesco di sfamarsi, ma che viene per un attimo frenato da un redivivo alito di umanità, nel vano tentativo di spengere l’impulso famelico, al limite dell’autocannibalismo, trattenendosi dal mangiare le proprie mani.
In un crescendo emotivo, l’opera si arricchisce delle figure dei figli e nipoti che completano il dramma: uno di essi si adagia già senza vita ai piedi del vecchio conte, mentre gli altri, piangenti e disperati per le fitte allo stomaco, cercano in lui un disperato aiuto.
“…poscia, più che il dolor, poté il digiuno”.
Carpeaux dimostra tutto il suo talento nello scolpire mani e piedi possenti, da quelle contratte in atteggiamento nervoso di Ugolino, a quelle aggrappate al suo polpaccio, supplicanti ma allo stesso tempo insistenti. Mani venose, dai tendini tesi, ogni nocca, ogni muscolo si piega e si carica di pathos, la cui presa enfatizza e mostra l’energia proveniente dalla disperazione.
La prevalenza del gusto romantico di rappresentare gli stati fisici, psicologici ed emotivi porta l’artista a tentare una sorta di esperimento artistico, che sacrifica la bellezza fine a sé stessa, preferendo il volto corrucciato e orribile della verità narrativa.
L’Ugolino di Carpeaux si ispira alla plasticità delle opere michelangiolesche, in particolare alle pose contorte del Giudizio Universale, ma troviamo anche citazioni di Bernini, nel caso delle mani aggrappate alla gamba di Ugolino e la rappresentazione che ricorda nel suo dramma l’episodio della morte di Laocoonte e i suoi figli, da cui sicuramente prese ispirazione.
Quest’opera, forse più di altre, è in grado di farci riflettere sul senso e sul valore della vita, che in un attimo ci regala la grandezza e poi nell’ombra si spegne.
Tommaso Amato