Dopo la Forma dell’acqua – The Shape of Water e la valangata di riconoscimenti ottenuti dalla pellicola (tra i quali l’Oscar a miglior film e miglior regista nel 2018) era più che legittimo aspettarsi una definitiva consacrazione di Guillermo del Toro a grande autore hollywoodiano.
In realtà, a quattro anni di distanza, le cose non sembra siano andate propriamente così. L’ultima fatica del regista messicano, La fiera delle illusioni – Nightmare Alley, è passata quasi inosservata, salvo che per aver strappato all’ultimo qualche nomination agli Oscar 2022 (quattro in tutto, però una sola nelle “categorie importanti”, miglior film, le altre sono tutte tecniche).
Secondo molti giornalisti, Nightmare Alley, è, infatti, un film sicuramente raffinato e di grande valore stilistico, ma noioso, che fatica a ingranare e che affronta in modo abbastanza superficiale e manicheo tanto il materiale di partenza (il romanzo Nightmare Alley di William Lindsay Gresham), quanto in generale il noir. Benjamin Lee su The Guardian lo definisce un “lavish yet […] soulless attempt to add prestige to pulp, unable to fully deliver on either a high or low level” a cui fa eco Aldo Spiniello su Sentieri Selvaggi che descrive il film come uno sguardo calligrafico e semplicistico sul passato (sia in senso storico che cinematografico), bello esteticamente, ma di limitata potenza e incisività.
Che la cura estetica del film sia elevatissima è indiscutibile: ogni dettaglio visivo è studiato con un’attenzione quasi maniacale. Altrettanto indiscutibile è che il film fatichi a ingranare: il primo atto sembra girare quasi completamente a vuoto. Per tutta la prima parte del film si vede il protagonista, Stan (Bradley Cooper), fare cose senza avere la minima idea di chi sia e di quali siano le sue motivazioni (basti pensare che la prima parola pronunciata da Bradley Cooper arriverà dopo 15-20 minuti dall’inizio del film!). Per un’ora secca si vedono scorrere delle bellissime immagini senza riuscire a entrare in nessuna connessione emotiva con esse. Partendo da questi presupposti, è facile capire la prima reazione dei giornalisti, soprattutto considerando quanto pesi il confronto con La forma dell’acqua, film capace di creare un grandissimo coinvolgimento emotivo e che parte da subito su vette liriche molto alte.

© 2021 20th Century Studios All Rights Reserved
Ma Nightmare Alley non è La forma dell’acqua. Per quanto simili sotto l’aspetto stilistico, i due film vanno in direzioni diametralmente opposte ed esplorano due storie diversissime, quanto più in generale due aspetti distinti, anche se interconnessi, dell’umanità. Se La forma dell’acqua parla d’amore, Nightmare Alley parla dell’incapacità di amare, e anche se la forma narrativa è sempre quella di una favola, così come lo stile virtuosistico e surreale, i cuori dei due film sono molto diversi. Nonostante i binari percorsi dai due lungometraggi siano ben distinti, entrambi i film li percorrono con chiarezza ed efficacia, portando a casa due lungometraggi non solo bellissimi, ma anche complessi e interessanti, seppur uno, Nightmare Alley, decisamente più difficile dell’altro, ma solo per il carattere intrinsecamente più cupo e oscuro della vicenda narrata.
Per capire meglio Nightmare Alley partiamo innanzitutto dal titolo. La traduzione italiana, La fiera delle illusioni, per quanto calzante, non coglie appieno il vero centro tematico ed emotivo del lungometraggio. Che Nightmare Alley racconti di illusioni, intese sia letteralmente come giochi di prestigio che in senso lato come inganni, è oggettivo. Tuttavia, queste illusioni, per quanto centrali in senso narrativo, non sono il vero protagonista del film. Il cuore di Nightmare Alley, come suggerisce il titolo originale, è la strada da incubo intrapresa dal protagonista nel tentativo di giungere a un successo via via sempre maggiore, una strada che lo porta a tradire le persone amate e ad abbandonare ogni principio morale. Che per raggiungere i suoi obbiettivi il protagonista scelga di diventare un mentalista è significativo solo fino a un certo punto. Ciò che importa non è tanto il campo deciso da Stan per avere successo, ma le scelte che è disposto a compiere pur di ottenerlo. In questo senso, Nightmare Alley, per quanto simile da un punto di vista narrativo, è molto diverso da altri film di ambientazione analoga, come The Prestige o The Illusionist.

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Il percorso compiuto dal protagonista è pervaso da un senso agghiacciante di vuoto e dall’inesausta ansia di cercare di riempirlo. Le motivazioni dell’ossessione di Stan per il successo risiedono proprio nel suo disperato tentativo di dare un senso alla sua vita, di trasformare un’infanzia fatta di dolori e mancanze in un’età adulta piena di gloria e amore. Il problema è che la sua ansia di riempire questi vuoti lo rende cieco. Le tre figure femminili del film, Zeena (Toni Colette), Molly (Rooney Mara) e Lilith (Cate Blanchett), fanno notare svariate volte a Stan che non è così furbo e intelligente come crede e che la strada che ha intrapreso non lo porterà nella direzione sperata. Tuttavia, Stan proseguirà sul suo percorso, spingendosi sempre più oltre i confini del moralmente e socialmente accettabile, in una lenta e inesorabile discesa agli inferi che lo porterà a reiterare la stessa disumanità di cui era stato vittima.
L’impronta generale della vicenda è fortemente moraleggiante, ma Nightmare Alley è, prima di tutto, una favola, non è una storia vera. Come anche ne La forma dell’acqua, personaggi e vicende non hanno pretese di realismo, ma tendono ad assumere caratteri caricaturali e simbolici che li allontanano da personaggi credibili come esistenti, per avvicinarli più a degli stereotipi e topoi del genere (basti pensare al personaggio di Lilith, che nella spettacolare interpretazione di Cate Blanchett, diventa la perfetta incarnazione della femme fatale). Personaggi e vicende, infatti, diventano strumenti per articolare in modo efficace il senso ultimo della vicenda che, in questo caso, è il racconto delle pene a cui una persona va incontro se sfida le leggi umane.
Alla luce di queste considerazioni si comprendono meglio le scelte fatte da Del Toro nella gestione sia del ritmo del film, che dei personaggi. Il modo in cui la figura di Stan e la relativa interpretazione di Bradley Cooper vengono curati ricorda molto il lavoro fatto da David Fincher sul personaggio di Nick Dunne interpretato da Ben Affleck in Gone Girl. In entrambi i casi la vera natura dei protagonisti non viene rivelata subito, ma piano piano lungo il corso del film. Lo spettatore rimane, così, per lungo tempo all’oscuro di chi effettivamente siano Stan e Nick. A questa scelta si accosta l’interpretazione rigida e poco espressiva di Bradley Cooper in perfetta consonanza con la vacuità e assenza di valori di Stan. La lentezza e la mancanza di un chiaro focus del primo atto del film segue esattamente la stessa logica: evidenziare e sottolineare lo smarrimento tanto fisico quanto morale del protagonista. In questo senso, funziona molto bene anche la prima enigmatica sequenza del lungometraggio, che verrà ripresa e spiegata solo verso la fine del film, che oltretutto accentua un senso di ricorsività e ciclicità secondo il quale da disumanità e brutalità non può che nascere altra disumanità e brutalità.

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Attraverso questi stratagemmi, il personaggio di Stan rimane un mistero per la stragrande maggioranza del lungometraggio, impedendo di coglierne le motivazioni e di creare, così, qualsiasi rapporto empatico con esso, in perfetta coerenza con la sua cecità e mancanza di consapevolezza che, come scritto sopra, viene più volta evocata dai personaggi femminili, e a quel senso di vuoto e mancanza che predomina su tutto il film e che è alla base della figura di Stan.
Su questa base,si innesta l’estrema ricercatezza estetica del film che accentua il carattere favolistico e surreale della vicenda narrata, aiutando a non leggere il lungometraggio come una storia vera, ma come una storia simbolica.
L’unico aspetto discutibile è il brusco cambio di ritmo tra il primo e il secondo atto: quest’ultimo è caratterizzato da una netta e frenetica accelerata che stona con la pacatezza della prima parte, spaccando quasi il lungometraggio in due e indebolendo l’idea, che è alla base del film, di una lenta e inesorabile discesa verso l’inferno.
Nonostante ciò, Nightmare Alley, resta un film molto solido, che costruisce con grande efficacia e chiarezza una favola nera carica di momenti memorabili, da Rooney Mara che avanza con le mani insanguinate nel mezzo di un giardino innevato, al primo e inquietante incontro tra Cate Blanchett e Bradley Cooper, sigillati da un finale semplicemente perfetto.
Paolo Radin