Famosissima icona del Rinascimento, il Doppio ritratto dei duchi di Urbino ci appare come un dipinto assai singolare, in quanto siamo di fronte ad un dittico, un doppio ritratto dei signori di Urbino: Federico da Montefeltro e Battista Sforza, prodotto dal grande Piero della Francesca intorno al 1465-1472. L’opera è stata realizzata con la tecnica dell’olio su tavola (47×33 cm ciascun pannello), e ad oggi è conservata presso la Galleria degli Uffizi a Firenze.
La datazione esatta del dipinto risulta non molto chiara in quanto, in base ad alcuni indizi, parrebbe che il ritratto di Federico fosse già stato completato intorno al 1465 (data l’assenza di insegne onorifiche), mentre quello della coniuge Battista Sforza si ipotizza possa essere postumo (come lascerebbe intendere l’iscrizione, volta al passato), quindi databile solo dopo il 1472, anno della morte della donna, avvenuta a soli 27 anni, di parto. Altro elemento a favore di questa tesi è l’iscrizione sulle tavole dei trionfi di Federico, che farebbe pensare ad una sua futura aspirazione ad ottenere la dignità ducale, quindi sicuramente precedente all’assunzione di tale titolo nel 1474. Probabilmente il ritratto di Federico venne composto prima e, con la morte della moglie, arricchito dell’altra tavola.
I signori di Urbino sono raffigurati di profilo, secondo i canoni della numismatica antica e dei camei tardo-imperiali romani, in un’immobilità solenne, privi di emozioni e di interazione con l’ambiente circostante, sospesi in una luce chiarissima davanti a un lontano paesaggio, che ricorda molto quello che sarà l’atmosfera della Monna Lisa di Leonardo. La luce, proveniente dalla spalle di Federico, è calda e avvolgente, e permette di rendere con grande precisione i particolari dei volti.
Da analisi specifiche sul dipinto, si è scoperto che l’artista dipinse i personaggi nudi, per poi vestirli con successivi strati di pittura solo in una seconda fase. L’uso della tecnica a olio è una novità per il pittore, nonostante in alcune opere precedenti venga usata una tecnica mista, olio e tempera. Questa scelta potrebbe essere derivata dal contatto con i pittori fiamminghi presso la corte urbinate, come ad esempio Giusto di Gand.
I due dipinti oggi sono separati ed inseriti in un apposito espositore che ospita dalla parte opposta i Trionfi; tuttavia, anticamente erano collegati da un’unica cornice. La disposizione dei soggetti, posti ai lati, porterebbe a pensare ad una commissione privata, non adatta al grande pubblico, probabilmente come ricordo della moglie defunta, come sembrerebbe suggerire anche un certo tono malinconico dell’opera.


I due ritratti spiccano per il netto contrasto tra essi. Il ritratto di Battista ha una colorazione chiara, la pelle di un candore quasi ceruleo secondo l’etichetta del tempo. La fronte, altissima, sempre secondo la moda dell’epoca che imponeva un’attaccatura molto alta (i capelli venivano rimossi con l’ausilio di una candela), e un’acconciatura elaborata, intessuta di stoffe e gioielli. Piero della Francesca, così come i fiamminghi, si soffermò molto sui particolari dei gioielli, creando effetti molto realistici legati ai materiali raffigurati.
Il ritratto di Federico è invece più realistico: la sua figura è imponente, sottolineata dal vivido rosso della veste e del copricapo. I capelli sono irsuti e si arricciano sulle orecchie, mentre lo sguardo torvo si carica di fierezza in lontananza. La pelle è dipinta nei minimi particolari, dalle rughe ai piccoli nei. Il naso adunco è di certo un’icona di Federico, rotto di proposito in modo da permettergli di avere una visuale maggiore, dato che aveva perso l’occhio destro durante un torneo, e per tal motivo si faceva raffigurare sempre dal lato sinistro.
Il paesaggio presenta forti influenze fiamminghe, in cui la foschia schiarisce le cose più lontane (prospettiva aerea) e il cielo sfuma verso l’orizzonte. Il panorama rappresenta in modo semplificato ma esaustivo l’ampia visuale che si poteva avere dalla torre occidentale del Palazzo Ducale di Urbino, con colline riccamente punteggiate di torri e castelli posti tra fertili vallate; i campi arati e un bacino (che richiama lo sbocco sul mare) rimandano all’industriosità del Ducato e alla sua potenza economica.
Se un tempo vi fu una grandezza, di certo questo dipinto ce lo mostra, e se un tempo vi fu l’amore, strappato dalla vita dura dei tempi, non ci è dato sapere, ma solo supporre, da quella vena di malinconia che silente attraverso le pennellate ci racconta una storia.
Tommaso Amato