Siamo in Mali, al confine meridionale del deserto del Sahara. La città di Gao è la stazione di posta per cui passano ogni anno migliaia di migranti intenzionati a raggiungere l’Europa. Ma non è facile. Poco più in là l’Algeria sta irrigidendo le sue politiche migratorie. Si rischia di venire arrestati dalla polizia e ricondotti a Sud, ai margini del paese. O perfino di trovarsi abbandonati all’inclemenza del deserto. Alle spalle attendono la povertà e situazioni familiari spesso conflittuali, legami spezzati. Davanti sorride la promessa di un nuovo inizio.
A metà strada fra le due, la Casa dei Migranti accoglie e aiuta ogni anno centinaia di fuggitivi. Spesso non hanno più un passato. Tutto quel che resta loro è una meta, e la flebile speranza di raggiungerla.
Impossibile ricavare la maggior parte di queste informazioni da una visione di The Last Shelter. Un pubblico più a contatto con le vicende narrate non avrà problemi a orientarsi, ma chi non conosce quest’istituzione si ritrova con ben poche coordinate, perso come i migranti nel loro oceano di sabbia. Anche se descrive un luogo e un attivismo concreti, il film di Ousmane Samassékou sembra poco interessato a erudire il suo pubblico sulle effettive dinamiche di funzionamento della Casa o sulla situazione migratoria, che fa convergere in questa cittadina una marea umana proveniente dall’intero continente africano. Quel che ricaviamo, esemplificato da una bellissima inquadratura “astratta” del deserto incorniciato attraverso una finestra, ha più l’aspetto dell’archetipo, del luogo-simbolo.
Non che manchino la voglia o la capacità di immergere il pubblico in profondità in alcune storie di vita, soprattutto quelle delle donne. Ma l’occhio di Samassékou resta quello di un poeta civile, intenzionato certamente a empatizzare con la sofferenza, ma anche e soprattutto a farne l’istantanea che tira le somme di centinaia di esistenze simili, persone spesso svanite nel nulla senza lasciar traccia di sé, oltre a un nome e a una provenienza geografica scarabocchiati su una tomba allestita alla bell’e meglio. L’insistenza sul tema dell’identità – quella perduta dei morti, quella a repentaglio dei vivi che rischiano di non trovare la loro “strada sotto il mare” – testimonia di un’urgenza che è prima di tutto commemorativa, celebrativa.
Il regista rivendica per il documentario uno statuto che potremmo definire monumentale, quello di una lapide ai Caduti più che di una lezione di geopolitica. Non punta il dito sulle cause, e nemmeno sugli scopi della migrazione: sceglie invece di estrarre dal suo soggetto la materia per un exemplum della tragedia storica attualmente in corso, e al contempo della condizione esistenziale del migrante, in transito fra un passato che non è più e un futuro che non è ancora. Astrarre dal particolare, sembra volerci dire, è il solo modo per rintracciare un senso in un deserto reale e metaforico dove i percorsi, le vite, i sogni di migliaia di uomini e donne si perdono nel nulla, inghiottiti dalla sabbia della memoria.
Lorenzo Meloni