FILM D’APERTURA

Regia: Noah Baumbach

«E poiché il sarto non avrebbe finito mai di tagliare la sua pezza sempre intera né il cuoco di compiere i suoi gesti da epilettico, da tutta quella inutile attività una specie di nausea mi venne, un malessere…Finché m’accorsi d’aver sottocchio l’immagine della vita». (C. Sbarbaro, Scampoli, 1985)

Jack Gladney (Adam Driver) è un professore universitario in un college nel Midwest degli Stati Uniti, e pioniere negli studi sulla figura di Adolf Hitler. Accanto a lui ha Babette (Greta Gerwig), una donna distratta e svampita che nasconde un segreto. I due hanno quattro figli.  Jack e Babette si amano, ma la fiducia che sembra essere alla base del loro solido rapporto viene presto minata, nel momento in cui Denise, la figlia maggiore, scopre che la madre assume di nascosto un farmaco, il Dylar, che sembra non essere disponibile sul mercato.

La prima parte del film procede spedita in un ritratto della famiglia Gladney, nido numeroso e rumoroso che sembra non avere un attimo di pace. Accanto alla vicenda familiare, si snoda quella di Jack in università, affiancato dai colleghi intellettuali e devoti e venerato dalle masse, non meno del suo oggetto di studio, di studenti che accorrono numerosi alle sue lezioni.

La seconda parte ruota attorno a un evento fortuito, la genesi di una nuvola tossica dovuta a un incidente ferroviario, che minaccia la città e la costringe all’evacuazione generale. Prima e seconda parte sono legate da un filo rosso: la ricerca della verità sul farmaco utilizzato da Babette. Una matassa che viene a mano a mano dipanata, per poi raggiungere lo scioglimento definitivo nella terza e ultima parte.

Come uno spettro, è la Morte che incombe su tutto l’arco narrativo, avvolgendo i personaggi e i loro pensieri. Il pensiero della morte, costante in Jack e Babette fino all’ossessione, viene poi esteso a tutta la comunità all’apparizione della nube tossica, che si espande inesorabile. La tematica della morte, che dovrebbe servire da collante per la moltitudine di temi affrontati, anche se appena accennati, nel film, non riesce però nel proprio compito.

Ciò che affiora invece, in modo preponderante e forse involontario dal caos dei temi che il film a malapena introduce, è una visione della vita come di uno sterile avvicendamento di abitudini, che vanno a iscriversi nella routine quotidiana di ogni individuo. I personaggi di White Noise hanno paura della morte, ma non riescono a vivere la vita, se non come continua replica, e sembrano compiere in eterno gli stessi gesti, come bloccati in una bolla capitalista, costretti alla ripetizione per sopravvivere. Gli unici che sembrano scampare all’illusione della ripetitività sono i figli, i bambini come Denise, generatori inconsapevoli dell’azione dei genitori, e per questo figure salvifiche della condizione umana. Il rumore, che è movimento, prodotto dai bambini, sembra essere l’unica cura alla piattezza diffusa e all’immobilità del rumore bianco.

Tommaso Quilici

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