Uno sguardo nostalgico al passato e l’incessante sete di novità e di futuro. È questo che racchiude il dipinto “Ritorno di Ulisse”, datato 1968, che raffigura Ulisse, riconoscibile dalle vesti e dalla fisionomia. E l’artista sembra mettersi nei suoi panni, quando dice che la sua “camera è un vascello fantastico, ove posso fare viaggi avventurosi degni di un esploratore testardo”, e per i chiari riferimenti autobiografici che emergono dall’opera stessa. De Chirico, così come l’eroe omerico, è alla continua ricerca di risposte riguardo la propria esistenza, perennemente inquieto e assetato di conoscenza.
L’artista dipinge l’opera in questione a ottant’anni, ed è ancora inconfondibile, e addirittura intensificato, il suo “segno”, che riprende temi caratterizzanti la sua produzione giovanile e li ridefinisce in chiave Neometafisica, in una sorta di continuo scambio tra passato e presente, di reinterpretazione reiterata nel tempo, proprio come suggerisce la rappresentazione stessa. L’Ulisse raffigurato, infatti, pur avendo raggiunto quella che potrebbe essere la sua casa, continua a viaggiare: allo stesso modo, l’artista continua a navigare, trovando in Ulisse il suo alter-ego.
La scena mostra pochi elementi, armonizzati tra loro, pur appartenendo a contesti differenti: la stanza che racchiude l’opera stessa, come una sorta di palcoscenico, rappresenta l’ennesima “sicurezza” da cui uscire, una zona di comfort che comincia a stare stretta all’artista, che non vede l’ora di salpare per affrontare la prossima avventura artistica. Anche a livello cromatico e contenutistico, il dipinto sembra replicare e ripercorrere le altre opere di De Chirico, tanto che alle pareti della stanza raffigurata si possono osservare due quadri appesi che rievocano dipinti del passato dechirichiano, con riferimenti alle Piazze d’Italia e all’ellenismo, come sempre in una cornice metafisica.
Giorgio de Chirico (Volo, 10 luglio 1888 – Roma, 20 novembre 1978), noto pittore e scrittore italiano, fu tra i massimi esponenti della pittura metafisica. A colpirne significativamente la sensibilità artistica fu in primis la città di Ferrara, in cui l’artista rimase per circa tre anni e mezzo, dopo che vi fu mandato con il fratello. Partecipò, poi, alla Biennale di Venezia (1924 e 1932) e nel 1935 alla Quadriennale di Roma, città in cui trascorse gran parte della sua vita. Seppe raffigurare in modo sapiente scene così particolari da avviluppare l’osservatore in un mistero senza fine.
A livello allegorico, con questo “navigare internamente”, insieme alla ripresa continua degli stessi temi del passato, De Chirico sembra voler invitare l’osservatore a fare un viaggio all’interno della propria arte e della propria memoria, per ripercorrere insieme ciò che è stato, ciò che è e anche ciò che sarà, ma sempre in una chiave nuova e diversa, che possa riuscire a stupire e a far riflettere, allo stesso tempo. Ciò che emerge dall’osservazione dell’opera è, quindi, la voglia di ripartire, anche a ottant’anni, e lo dimostra la porta socchiusa della stanza in cui De Chirico-Ulisse naviga, desideroso di reinventarsi, ancora una volta.
Chiara Pirani