Sguardo vacuo, movimenti meccanici e ritmati, sembianze così simili a quelle umane da creare un senso profondo di inquietudine e turbamento… Ma ora basta descrivere i tiktoker, parliamo piuttosto degli automi.
Costruire e programmare un essere a nostra immagine e somiglianza non è solo la moda dei giganti dell’ hi-tec o la visione di qualche abitante della Silicon Valley con manie di onnipotenza, ma rappresenta un’inquietudine antica quanto la nostra specie. Senza scomodare tutti i filosofi dei diversi secoli e delle diverse zone del mondo che si sono interrogati sullo status degli automi e sul senso (prometeico, verrebbe da dire insieme a G. Anders) della loro costruzione, basterebbe un solo nome dal quale iniziare la scoperta di questo mondo pieno di luci ed ombre: E. T. A. Hoffmann.
L’uscita, qualche mese fa, della splendida raccolta di racconti Automi, bambole e fantasmi (ed. L’orma, una garanzia) è un’occasione imperdibile per rileggere uno degli autori più versatili, geniali e influenti del romanticismo e non solo.
I racconti di Hoffmann hanno infatti ispirato una celebre opera di Offenbach dalla quale sono stati tratti un musical di grande successo e l’interessantissimo film The Tales of Hoffmann di Michael Powell e Emeric Pressburger.
La pellicola del 1951 è un caleidoscopio di colori sgargianti che, alternando teatro, danza, opera, ci trascina in un mondo di allucinazioni e inquietanti “doppi” che prendono vita davanti ai nostri occhi.
L’esaltante vivacità degli arredamenti e dei costumi, l’esplosione di colori che ad ogni scena si fa sempre più irreale e ammaliante, la frenetica energia delle coreografie e la bellezza dei mille dettagli non nascondono il fondo oscuro e agghiacciante delle storie di Hoffmann, anzi. L’inquietudine e lo smarrimento dei protagonisti vengono esaltati dal contrasto con l’ambiente, con le musiche e con la bellezza delle figure.
Il fascino perturbante dell’automa è il suo glaciale distacco, l’arma perfetta è il suo sguardo fisso, i suoi movimenti ci atterriscono per la combinazione, mostruosa ma segretamente anelata, di perfetta efficienza e assoluta indifferenza. Intorno ad un automa che suona il piano si possono scatenare apocalissi, esplodono le rivoluzioni, si compiono delitti di gelosia e suicidi d’amore, ma lui continuerà a suonare serenamente fino alla fine della carica.
Al contrario, per Hoffmann l’allucinazione è quanto di più umano ci possa essere, è la liberazione di un desiderio che prova a squarciare la realtà (insopportabile, claustrofobica) e a prendere vita, a costo del proprio annullamento. L’automa, in questo senso, non è troppo diverso dall’uomo ridotto ad algoritmo, a performance misurabile, a combinazione di thread da seguire e di istruzioni da compiere (balla, condividi, segui) fino a quando lo schermo non si spegne.
In The Tales of Hoffmann, questo contrasto tra umano e artificiale prende la forma di un musical di chiara ispirazione operistica, che a distanza di tempo offre ancora molti spunti artistici per chi sia alla ricerca di qualcosa di veramente unico e difficilmente catalogabile.
Lo trovate su Mubi.
Marco Lera