Della pandemia non si butta via niente, si filma tutto e qualcosa si salverà per i posteri, o per qualche futura cena amarcord.

L’ordine perentorio di registrare senza filtri, filmare ogni smorfia e dare libero sfogo alla propria solitudine arriva dal regista Fabio Donatini (un Achab 2.0), il quale decide di imbarcare sulla sua nave di folli alcuni amici con l’intento di farsi forza a vicenda durante il lockdown e di testimoniare come le loro vite cambino con il passare dei giorni.

Il risultato di questo esperimento è Slipknot, Last Song, un diario di bordo di una ciurma delirante abbandonata in tante isole deserte quanti sono i suoi componenti, un tentativo di catarsi collettiva di fronte all’ignoto, una terapia di gruppo messa in video nella speranza che il filtro del video renda possibile un minimo distacco rispetto alla gravità della situazione.

In Slipknot c’è spazio per tutto quello che attraversa la mente dei protagonisti e molto altro. Canzoni demenziali si alternano a confessioni dolorose, ci si traveste da lupo nero per sopravvivere alla noia, ci si depila per disperazione e si indossano magliette del Bologna per sentirsi come allo stadio.

Eppure, come in tutti i migliori esperimenti, qualcosa inizia a sfuggire di mano, i nervi iniziano a crollare, la fiducia nel capitano si incrina con il passare del tempo, le promesse fatte sull’onda dell’entusiasmo iniziano ad essere percepite come un peso. Filmarsi non è più la pratica che salva dalla depressione, ma diventa parte integrante di ciò che si cerca di combattere. Il video è il pharmakon che avvelena lentamente quegli stessi incauti che aveva promesso di curare.

“Se hai l’ansia, riprenditi!” non è quindi una frase motivazionale o un incoraggiamento mosso da empatia, è l’ordine gridato dal capitano agli ammutinati per riportarli all’ordine, per richiamarli al patto originario. Non ci sono scuse, non si torna indietro: loro gli hanno chiesto di aiutarli, dirigerli e guidarli attraverso i giorni della pandemia, hanno detto di volersi riprendere mentre stavano male per far capire cosa fosse la solitudine.

Slipknot ci restituisce in pieno la fragilità dei nostri piccoli mondi, il nostro bisogno di legami e di consolazione tra il tragico e il grottesco, tra una bestemmia e un sorriso a denti stretti.

Marco Lera