“Ride” è il film d’esordio del regista italiano Jacopo Rondinelli, ma la sceneggiatura è stata curata dallo scrittore Marco Sani e dalla coppia Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, già autori di “Mine” di cui ho scritto qui. Protagonisti della pellicola sono Lorenzo Richlemy e Ludovic Hughes.

 

Ride, nonostante la premessa, è un film molto complesso ed è difficile parlarne in poche righe, evitando di rivelare troppo sul film, se si vuole proporre un’analisi dei contenuti il più possibile esaustiva, pertanto ho deciso di rimanere vago su alcuni riferimenti e mi scuso in anticipo se questo articolo sarà poco chiaro.

 

Partiamo dalla trama: il film narra la storia due riders, Kyle (Hughes) e Max (Richlemy), ovvero due amanti degli sport estremi atleti di downhill, disciplina estrema che prevede l’uso di mountain bikes. I due protagonisti,molto diversi caratterialmente, vengono reclutati dalla misteriosa società Black Babylon per partecipare ad una gara segretissima, che prevede un premio di 250.000 dollari per il vincitore. I due accettano, non sapendo che quello che li aspetta è una prova che li spingerà negli abissi della mente umana.

 

Come già capitato con “Mine”, la premessa fa già pensare a un tipo di film abbastanza prevedibile per quanto intrigante, il solito thriller su un gioco che diventa tragedia ma, proprio come nella precedente opera dei due ,questo è solo un inganno, un’illusione, perché il film che stiamo per vedere prenderà tutta un’altra piega, sfociando nel cinema sperimentale.

 

Parlando del contenuto, posso dire senza paura che Ride è un film strutturato su più livelli in comunicazione tra loro: molte riflessioni esposte nel film, infatti, funzionano sia sul piano diegetico nella situazione affrontata dei personaggi che sul piano dell’esperienza dello spettatore, che assiste alle azioni e che diventa il sadico voyeur delle (dis)avventure dei due riders. Voyeur come gli spettatori di YouTube che seguono i protagonisti nelle loro imprese, come gli agenti di Black Babylon nel corso della gara, ma anche come i protagonisti, che attraverso le loro maschere tecnologiche possono sorvegliarsi l’un l’altro durante il percorso. La carne messa al fuoco è tanta, la più palese riflessione proposta dal film è quella sull’iperconnessione e sull’umanità soffocata e dipendente dagli smartphone e dai social network, ma è chiaro anche il tema Hanekeiano della violenza nell’industria dell’intrattenimento, di conseguenza i due Fabio ci mostrano come questi due temi siano strettamente connessi nella società dei consumi contemporanea. Una società dove cerchiamo gli stunt più assurdi e tragici su Facebook, dove guardiamo gli incidenti stradali su YouTube, dove giornali online rendono pubbliche immagini violente e registrazioni di bambini in lacrime, sapendo che noi puntualmente cliccheremo play.

 

Se questa pulsione di morte Freudiana indagata nel film ha origini ancestrali nell’anima dell’uomo, Ride non si fa scrupoli a palesarla, mettendo in scena una fantasiosa fenomenologia di quanto il film mostra. A questo si ricollega il lato oscuro dello show business, in una rappresentazione che attinge tanto dal cinema che dalla cronaca di Hollywood e dalle teorie complottiste mai del tutto smentite.

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Si potrebbe discutere ancora a lungo dei contenuti di “Ride” ma, onde evitare di dilungarmi troppo, passerò ad esporre la caratteristica più esplicita e pubblicizzata del film: la sua forma. Tutto il film è girato in stile found footage e assieme alle go-pro sono state usate telecamere professionali, droni e (finte?) camere di sorveglianza. Le go-pro montate sugli attori e sulle biciclette portano sul grande schermo quella forma audio-visiva tipica dei filmati di YouTube di atleti estremi e dimostrano una volta per tutte quanto la action cam, nonostante le palesi limitazioni, sia un linguaggio quanto mai contemplabile nella tavolozza dei cineasti del futuro che come Rodinelli sapranno vedere oltre il giocattolo amatoriale. Questa tecnica, inoltre, affida buona parte delle riprese non allo staff tecnico ma agli attori stessi, introducendo il neologismo “oper-attore” per definire il lavoro svolto dai protagonisti. Parlando degli attori, non si può non lodare la loro incredibile prova interpretativa, in particolare quella di Richlemy nei panni del rider spericolato. Per proseguire il discorso sull’apparato tecnico, impossibile non citare l’impressionante lavoro di montaggio, computer grafica e di minuzioso sound design.

 

Per concludere, “Ride” risulta una strana creatura onnivora, che si alimenta di internet, cinema (con palesi citazioni), televisione, social network, videogiochi, fumetti e anche di leggende moderne, e restituisce una forma inedita nel cinema italiano e internazionale. Se da un lato il film pecca in certi momenti di credibilità e stanca per il continuo stress emotivo che non lascia troppo spazio a sentimenti che non siano la paura, l’ansia e la rabbia, d’altro canto non si può non dire che ci si trova di fronte a uno dei più lucidi esempi di cinema di genere che sa sperimentare e sa osare, un grandissimo punto a favore per un film italiano che si spera farà scuola.

 

Marco Andreotti

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