Christian Bale dà nuovamente prova di trasformismo camaleontico in Vice, il nuovo film di Adam McKay, in cui interpreta il politico americano che forse più di tutti ha avvelenato la nazione e il resto del mondo dal secondo dopoguerra: Dick Cheney.
Dopo il successo di pubblico e di critica de La grande scommessa (2016), film corale che con grande ritmo e lucidità ci spiegava una volta per tutte la crisi economica del 2008, McKay ritorna con un affresco della storia americana recente, dipingendo stavolta a tinte più scure. E i toni sono coerenti con il soggetto, dato che Dick Cheney – sebbene ai più il suo nome non risulti particolarmente noto – è stato un vero e proprio flagello per la geopolitica internazionale, soprattutto negli anni in cui è stato il vice presidente di George W. Bush (qui il premio Oscar Sam Rockwell), di cui ha controllato praticamente in toto il potere esecutivo.
Dick Cheney, per farla breve, è stato colui che ha gestito al posto di Bush l’attacco alle torri gemelle, che ha promosso la tortura, l’utilizzo illegale di dati, ma soprattutto che ha pensato e portato avanti una politica militare e poi mediatica di guerra in Iraq e in Afghanistan, fomentando l’idea di scontro tra civiltà e nascondendo sotto l’allarmismo delle famose “armi di distruzione di massa” dei talebani una strategia di arricchimento per le grandi aziende petrolifere – tra cui la propria.
Il film si concentra soprattutto sugli anni di Cheney alla casa Bianca: dell’uomo privato sappiamo poco e niente, tutto è incentrato sull’uomo politico e su come la sua strategia del silenzio lo abbia fatto avanzare sempre di più fino a controllare Bush come un burattino. Qualche accenno ai suoi anni del college e alcune scene di confronto con la moglie (interpretata da Amy Adams), l’unica che gli abbia mai tenuto testa, ma per il resto poco ci viene detto del perché Cheney sia diventato quello che è. Quello che Vice ci mostra è soprattutto la scalata inarrestabile verso il potere, fatta di imbrogli, meschinità e becero arrivismo, fino all’apoteosi di potere dell’era Bush dal 2001 al 2009. È proprio il rapporto di Cheney col potere il nodo tematico del film, il cui punto di snodo narrativo è la forte presa di posizione rispetto all’11 settembre, affermata con poche parole ma dispiegata come momento chiave (con cui tra l’altro comincia il film, ma su cui si ritorna) non solo per Cheney ma per milioni di persone, come difatti è stato.
Quella che dispiega Vice è una riflessione, quindi, prettamente politica, che non risponde ai “perché” ma ai “come”, portata avanti da un uso dei linguaggi cinematografici che diverte e affascina. McKay propone allo spettatore una sorta di gioco, ovvero una messa a nudo dei meccanismi di finzione che ci aveva già sorpreso e divertito ne La grande scommessa, ma che qui si spinge un passo oltre, presentandosi in diverse configurazioni. In primis c’è un narratore onnisciente che interagisce con lo spettatore, spiegando dei fatti storici o chiarendo passaggi del film: un’operazione già usata nel film precedente, ma che qui arriva a dei risvolti inediti, mettendo il personaggio narratore in una posizione poi essenziale ai fini della storia narrata. In seconda battuta vi è poi il palesamento della finzione, senza però l’interruzione della stessa, ovvero degli scambi di battute tra personaggi che dicono cose improbabili per quello che gli sta accadendo (ma che ci fanno capire meglio cosa si intende davvero dire) o delle scene che mostrano le conseguenze di quello che sarebbe potuto accadere se…
Insomma, un gioco affascinante ma pericoloso, se si considera che il tutto è unito a un continuo viavai tra presente e passato e ad alcuni pezzi di materiale d’archivio, ma grazie a un montaggio preciso, ritmato e a una scansione dei tempi pensata al millimetro il groviglio della materia dispiega chiaramente i fatti e diverte nella sua grandissima audacia.
Da una parte il film risulta quindi frustrante rispetto ai perché, mancando di spiegare o di approfondire un minimo le motivazioni di tanta meschinità. Questo non danneggia però la credibilità del personaggio, che è sfaccettato e coerente: il Cheney politico è assolutamente chiaro, le sue strategie di potere man mano che si va avanti diventano familiari, e Christian Bale (che per questo ruolo ha appena vinto il Golden Globe) è qui davvero un maestro della sottrazione, asciugando il personaggio il più possibile e rendendolo comunque interessante. Quello che però attira di più, in ultima battuta, è soprattutto il modo dell’esposizione, il cortocircuito linguistico, che continua a essere un marchio distintivo di McKay, che coinvolge e rende la visione attiva, riuscendo a mantenere sempre alta la soglia di attenzione dello spettatore.
Bianca Ferrari