chiarori

 

Sono entrato in casa e mi sono diretto verso i fogli bianchi, verso la fede e il dubbio, il cosmo e il caos, per cercare di organizzare la vita che è stata e che nella ricostruzione torna a essere, se non la sua, almeno una vita, e se non una vita almeno, forse, un racconto, un più o meno dolce passatempo sulle ridicole cose che, nel loro insieme, portano il nome d’amore.

 

Si chiude così il primo capitolo di uno dei più celebri e intensi romanzi dello scrittore svedese Göran Tunström. In Chiarori, Petur, ambasciatore islandese a Parigi, ritorna in patria dopo la morte del padre e ripercorre, attraverso la scrittura, il rapporto tormentato con quest’ultimo.

Da bambino, Petur guarda con ammirazione e rispetto Halldór, lui che oltre che padre gli è madre, che sa riempire le mura domestiche delle anime dei compositori del passato e la cui voce è una delle più famose d’Islanda. Il giovane lo vede protagonista delle più mirabolanti avventure, dal risolvere una crisi di stato con la Nigeria causata dalla mancanza di rafano al far battezzare un neonato Petur da un gruppo di vescovi ubriachi, dall’ingaggiare partite a scacchi con i ministri all’evocare decine di “Flygje azzurre” per placare la solitudine notturna.

Eppure, con la crescita, marcata dalla perdita del Sacro Pallone, arriva anche la disillusione, ed è allora che Petur a malapena tollera la smania del padre di distorcere la realtà a suo vantaggio, il bisogno tale di porsi al centro da allontanare il figlio dalle proprie conquiste. Così Petur si allontana prima da casa, poi dal Paese, lasciando Halldór solo con la disperazione imperversante di una vecchiaia che non riesce ad accettare e con la perdita graduale del controllo sul lavoro, sul fisico, sulla psiche.

Quante di queste morti possiamo sopportare, prima che venga la morte? Come scrivono spesso nelle recensioni dei libri: “Non sono più la stessa persona.” Eppure svolgo ancora la mia funzione.

Ad un ormai cresciuto Halldórsson continuano a giungere le lettere sconnesse del padre, in cui il dolce ricordo di Lara e la sua sparizione nella Fretla si intrecciano al terrore di una morte che si appropinqua inesorabile.

Allora il suo nome corre per la brughiera, e tu capisci come la vita sia una gigantesca questione di perdita.

Quando alla fine cessano, lasciano spazio solo alla memoria, al dolore e alla riscoperta di una terra lontana.

L’Islanda di Tunström è quella che il traduttore italiano Fulvio Ferrari definisce una nazione “da operetta”, che pare ridotta ad un paesino di campagna, dove gli abitanti si conoscono l’un l’altro, dove non è altro che ordinario incontrare primi ministri e musicisti di fama mondiale per strada.

Lo scrittore svedese è uno dei rappresentanti del cosiddetto realismo magico, che rende le sue narrazioni esperienze di vita in cui il lettore si possa riconoscere, ma lo fa attraverso una lingua immaginifica. Oltre a cambiare la lingua, i campi semantici e le parole in modo inusuale, egli è comico nel dipingere in modo esilarante la società islandese, frammentato e lento nella narrazione, ma capace di regalare squarci poetici emozionanti.

Ad una lettura più attenta, emerge come al centro del romanzo, in cui realtà e finzione si mescolano in un marasma di immagini, ci sia una profonda riflessione sulla vita e sui grandi sentimenti che legano gli individui. Attraverso comicità dirompente e gioco, Göran Tunström esprime con disarmante chiarezza quanto amore e sofferenza siano in grado di forgiare la personalità degli esseri umani, ma anche quanto sia sostanziale la reazione individuale nei confronti delle criticità e i cambiamenti. Nelle figure di Halldór e Petur si svela il sottile confine tra il bene e il male, dove, se il primo è apertura alla vita e all’amore, il secondo è chiusura e irrigidimento. Allora, mentre Halldór sprofonda nell’incapacità di gioire della vita e nel terrore dell’invecchiamento e della morte, Petur esplora sé stesso e si riappacifica con i fantasmi del passato.

Tuttavia, come dimostra Halldór nella propria autoanalisi attraverso il dialogo epistolare con il figlio, la sordità alla vita è una condizione reversibile.

Micol Zanaga

 

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