Che ci sia stata una certa svalutazione dell’opera di Pietro Germi è un dato di fatto: da regista acclamato, di quelli che già dal nome sono una garanzia, che hanno in tasca la recensione positiva già prima dell’uscita del film, il regista genovese ha visto un progressivo decadimento della valutazione delle sue opere a partire dagli anni Cinquanta, anni di discussione del canone realista, fino al culmine degli anni Sessanta, anni delle sue grandi commedie come Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1964) – autentici capolavori che sono stati spesso liquidati come espressione di un lavoro ben fatto, un esercizio formale che ribadiva soltanto il Germi regista mestierante e “il grande falegname”, come lo stesso Federico Fellini lo definiva.
Certo non si può dare la colpa solo al canone realista e alla sua difficoltà di traduzione nella filmografia italiana del dopoguerra, se di Pietro Germi oggi si sente parlare pochissimo: lo stesso Luchino Visconti ha faticato ad essere classificato come autore neorealista (come testimonia la polemica attorno al film Senso, sulla rivista Cinema Nuovo), eppure è riconosciuto dai più come uno dei maggiori registi italiani di sempre.
Quello di Pietro Germi è invece un caso particolare che va a richiamare questioni scottanti come il confronto della cinematografia italiana con quella di Hollywood: ebbene sì, perché quando ci si riferisce, per esempio, a In nome della legge (1949), terzo film del regista, non è esagerato parlare di cinema di genere, quello western, di mitizzazione della criminalità e di quella centralità della costruzione drammatica che era tutto l’opposto dei precetti neorealisti.
Tratto da un romanzo degli anni Venti, In nome della legge vede tra gli sceneggiatori lo stesso Fellini e Mario Monicelli, e segna la scoperta da parte di Germi della terra di Sicilia, attraverso la storia di un giovane pretore proveniente dalla città (Massimo Girotti) che si ritrova a fare i conti con la mafia locale e a dover far rispettare la legge di Roma, quella dello Stato, in un luogo dove lo Stato ha sempre faticato ad arrivare.
Se la premessa di indagine della realtà italiana nelle sue problematicità e l’ambientazione stessa indirizzano verso il neorealismo, Germi inserisce le vicende all’interno di un quadro stilistico che rimanda chiaramente al cinema western di John Ford, che dichiaratamente ammirava, realizzando il primo western italiano ben prima di Sergio Leone. A partire dai campi lunghissimi sulla terra siciliana che fanno eco alla Silicon Valley, In nome della legge sembra adattarsi perfettamente a una identificazione di genere anche attraverso i personaggi-tipo come il pretore/sceriffo e il mafioso/capo indiano. Germi però non si limita all’iconografia o alla tendenza stilistica, ma fa un passo oltre, attuando la mitizzazione stessa del western, che si adatta alla vicenda siciliana, e attraverso la quale fa un’operazione molto rischiosa: idealizzare la mafia (o perlomeno alcuni dei suoi rappresentanti).
Questa idealizzazione parte dalla premessa, affermata più volte durante il film, che una cosa è la mafia e un’altra la delinquenza: “Non siamo delinquenti, noi, siamo uomini d’onore”, dice il personaggio del massaro Turipassalacqua (Charles Vanel), dopo che l’entrata in campo a cavallo di lui e i suoi compagni, sbucando da una collina, è stata resa come una entrata epica al modo in cui dignitosamente i pellerossa apparivano all’orizzonte nei film fordiani. La Sicilia diventa allora nel film di Germi terra di frontiera, quella frontiera dove il concetto stesso di legge è labile e fuori dalla dimensione ordinaria, un luogo dove la giustizia è appannaggio dei singoli o comunque interno a una piccola comunità: non certo di un pretore impettito e dai sogni legalisti, pesce fuor d’acqua in una realtà che vuole risolvere ma che sembra non capire, nonostante affermi di essere di Palermo. E il proverbiale moralismo di Germi si fa sentire, e irrompe come sempre nel finale, attraverso un discorso del pretore sull’omertà e sulla colpa che, reso in contrasto con le facce impassibili dei paesani che lo ascoltano, sembra essere ancora di più inadatto e fuori luogo, riaffermando la necessità di una legge interna come quella mafiosa.
Così Pietro Germi, che si definiva “un uomo d’altri tempi”, appare un regista contraddittorio, diviso tra l’esigenza neorealista e una tendenza americanizzante che dai suoi primi due film ha affermato attraverso diversi generi (il noir e poi il giallo), ribadendo che il cinema italiano poteva guardare oltreoceano per poi trasportare da noi l’uso del genere per parlare della contemporaneità: un’operazione che la storiografia e la critica dei puristi non gli hanno perdonato.
Bianca Ferrari