antonia pozzi

Il porto

Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata
dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata
dagli uragani –

io vengo da mari lontani
e carica d’innumeri cose

disfatte
di frutti strani
corrotti
di sete vermiglie
spaccate –
stremate
le braccia lucenti dei mozzi
e sradicate le antenne
spente le vele
ammollite le corde
fracidi
gli assi dei ponti –

io sono una nave
una nave che porta
in sé l’orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo.
Risogna la nave ferita
il primissimo porto –
che vale
se sopra la scia
del suo viaggio
ricade
l’ondata sfinita?

Oh, il cuore ben sa
la sua scia
ritrovare
dentro tutte le onde!
Oh, il cuore ben sa
ritornare
al suo lido!

O tu, lido eterno –
tu, nido
ultimo della mia anima migrante –
o tu, terra –
tu, patria –
tu, radice profonda
del mio cammino sulle acque –
o tu, quiete
della mia errabonda
pena –
oh, accoglimi tu
fra i tuoi moli –
tu, porto –
e in te sia il cadere
d’ogni carico morto –
nel tuo grembo il calare
lento dell’ancora –
nel tuo cuore il sognare
di una sera velata –
quando per troppa vecchiezza
per troppa stanchezza
naufragherà
nelle tue mute
acque
la greve nave
sfasciata –

Troppo spesso si annoverano tra i poeti emblematici di inizio Novecento nomi noti quali Saba, Ungaretti, Montale, D’Annunzio. Raramente qualche nome femminile compare, nonostante le autrici degne di nota non manchino. Tra di loro, la milanese Antonia Pozzi, animo tormentato ed enigmatico.

antonia pozzi1

Nata nel 1912, non conosce mai la fama in vita, perché le sue poesie sono pubblicate postume. Fin da ragazzina, racchiude in sé un’indole sensibile, è amante della cultura e della bellezza; è una sportiva, una viaggiatrice e una fotografa, oltre che una poetessa. L’amore, struggente e ostacolato strenuamente dal padre, per il professore di latino e greco Antonio Maria Cervi sarà protagonista di numerosi dei suoi componimenti e l’accompagnerà per tutta la vita.

Il porto, scritta nel febbraio del 1933, incarna in sé gli insegnamenti del crepuscolarismo, con il suo clima mesto e sofferto e l’andamento a tratti prosastico, e dell’ermetismo nello stile asciutto e scarno. Antonia Pozzi si riferisce a sé come a una nave, agitata dai flutti e dai venti, che agogna la riva senza riuscire mai a toccarla. Con una metafora di tale vividezza e profondità, la poetessa simbolizza un dramma esistenziale che nessuna delle attività che la impegnano è in grado di placare.

La sua grande abilità sta nel comunicare, attraverso una levità e delicatezza unica, un canto di dolore straziante, una dichiarazione di estraneità alla vita reale, a cui non si sente di appartenere e che rifugge.

Buona parte delle opere della Pozzi si riveste di descrizioni e metafore appartenenti al mondo naturale, che trasmettono un’idea di leggerezza che permane in tutta la sua poetica. Questa dovrebbe essere la vita, secondo Antonia. Ma così non è. L’esistenza è, invece, oscura, pesante, dolorosa. In questo panorama desolante, ella si affida alla poesia, che sola può donare la speranza di innalzare, di essere una faro che guida nel buio.  

Leggendo con consapevolezza le sue poesie, emerge come quel “desiderio di cose leggere” che esprime in alcune altro non sia che desiderio di morte, una morte che libera dal dramma e dall’oscurità della vita reale.

Come se le sue poesie racchiudessero una sorta di testamento spirituale (quando per troppa vecchiezza/per troppa stanchezza/naufragherà/nelle tue mute/acque/la greve nave/sfasciata –), quel desiderio si esaudisce, infine, nel 1938. Antonia Pozzi muore suicida a soli 26 anni, ingerendo un mix letale di barbiturici e abbandonando il suo corpo morente nella neve.

Micol Zanaga

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