“La fascinazione è una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta.”
Con questa citazione del famoso antropologo Ernesto De Martino, dal testo Sud e Magia, edito nel 1959, si apre il film d’esordio di Domenico Emanuele De Feudis.
Sin dai primi minuti, con un omaggio forse a quello che sembra essere l’arrivo della famiglia Torrance all’Overlook Hotel, il viaggio nell’opera ci riporta con larghi piani di veduta in un paesaggio reso sin da subito riconoscibile: siamo in Italia, siamo in Puglia.
Francesco (Riccardo Scamarcio) è un giovane musicista di ritorno alla sua terra di origine dopo molto tempo, accompagnato dalla sua fidanzata Emma e la figlia di lei Sofia, per comunicare la loro unione in matrimonio a sua madre.
Sofia si troverà ben presto in pericolo, preda di una figura che proverà a legarla a lei.
De Feudis pone la vicenda vista dagli occhi dell’unica figura esterna, abbastanza adulta per essere scettica di credenze e tradizioni passate ma ancora effettivamente radicate in quella terra dei “rimorsi”, come spesso viene ancor oggi descritta. Emma non è mai stata in quel luogo, non conosce culture e usanze diverse se non le sue, come normale che sia.
La rappresentazione straordinaria del paesaggio circostante, reso grottesco dall’utilizzo del sonoro, frutto delle composizioni di Massimiliano Mechelli, rende la visione del film piuttosto ambigua: stiamo guardando un film horror con il classico jumpscare oppure oltre questo occorre piuttosto guardarsi intorno, tra tradizioni, culture e, appunto, legami?
Si parla di legame naturale, familiare, sanguigno ma anche in un certo senso “adottivo”. La Fascinazione, che in molti altri casi potremmo chiamare malocchio, prevede un’invidia di fondo: io mi riprendo ciò che deve essere mio o, piuttosto che sia tuo, preferisco che non ci sia. Questa fascinazione viene trasferita tramite una tarantola, cosa che un po’ sconvolge le tradizioni, mescolando le culture e le credenze di uno stesso luogo in un calderone senza fine.
Il regista si muove mettendo in scena ciò che il cinema horror gli ha insegnato. Niente di troppo originale, ma è sicuramente interessante la tematica, frutto della scrittura di Daniele Cosci, Davide Orsini e lo stesso De Feudis. Lo sguardo esterno può far sì che si possa pensare a un paragone con quello che è stato uno dei film più stupefacenti dello scorso anno, Midsummer del regista Ari Aster.
Entrare in una condizione esterna alla propria e imprevedibile è ciò che già pone la situazione in una posizione orrorifica: non abbiamo paura di ciò che conosciamo, ma ci discostiamo con orrore da ciò che non possiamo toccare con le nostre mani, fino a quando effettivamente questo non diventa inevitabile.
L’utilizzo di oggetti simbolici (vedrete specchi, ossa, sangue) non fa altro che potenziare questa sensazione di tensione che si crea nello spettatore ma, al tempo stesso, il focus su cui De Feudis si concentra è un altro: come capita solitamente, il maligno non è necessariamente tale, forse lo è diventato. Il desiderio, l’invidia, l’identificazione con l’Altro è giustificato dal passato, si sviluppa nel presente, e perché no, anche in un futuro. Il finale viene lasciato aperto, il secondo capitolo forse darà più spiegazioni, o forse non ce ne sarà bisogno. La tematica stessa, oltre che concentrarsi su una tradizione recondita del luogo, gira intorno alla maternità. Il desiderio o la distrazione o ancora l’impedimento di questa rappresentano il principio della vicenda. Il legame stesso, a volte spezzato, ricorda uno specchio in frantumi.
Tutto ciò viene rappresentato nel film, ricordandoci che, a volte, il cinema italiano è capace di spaventarci nello stesso luogo in cui forse siamo cresciuti, la nostra terra.
Un elogio a De Feudis, anche se l’unico vero difetto che vorrei riscontrare in questa pellicola è la possibilità mancata di attraversare davvero la tradizione e soffermarsi su questa. A volte, per spaventare, non serve necessariamente inserire cliché orrorifici ma, piuttosto, sfruttare la tradizione e rendere proprio questa spaventosa.
Sarah Corsi