Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, il terzo capitolo della saga cinematografica tratta dai libri di J. K. Rowling, è firmato da Alfonso Cuarón. Il mondo dentro il quale Chris Columbus ci aveva fatto immergere è stato praticamente raso al suolo e ricostruito dalle sue fondamenta. I toni sono più cupi, l’atmosfera è grigia e drammatica. Harry non è più il bimbo con gli occhialini tondi: adesso è un adolescente e inizia a ribellarsi agli zii flagellatori che sono ora intimiditi dal ragazzo. I Dursley lo temono e lui non è più né il Cenerentolo del sottoscala, né il bambino con le sbarre alla finestra. Ha già sconfitto due volte la minaccia del ritorno di Lord Voldemort, ha combattuto contro immensi mostri e sconfitto la morte grazie alla fenice del professor Silente. Ora ciò contro cui deve combattere, secondo la visione di Cuarón, sono i mostri della mente, quelli che si annidano in ogni adolescente che sia o non sia dotato di magia. Ecco quindi che le uniformi sono vissute dai ragazzi in maniera più selvaggia, le capigliature sono trasandate e trasmettono la confusione di un’età di passaggio e di sperimentazione.
Intanto l’universo della Rowling è più astratto e sempre più fitto di indizi magici che Cuarón dissemina – anche di creature addomesticate o di sua invenzione come la testa parlante sul Nottetempo – all’interno di campi lunghi e stranianti per l’effetto degli obiettivi grandangolari. Le nuove ambientazioni scozzesi sono fredde e avvolte da cieli nebulosi, il perfetto scenario per una Hogwarts che si fa personaggio, per una casa dei fantasmi ondeggiante come la Stamberga Strillante (completamente costruita in studio) e per le movenze di esseri fluttuanti e oscuri come i dissennatori. Questi, secondo lo sguardo attento di Cuarón, sono creature che non possiedono alcun tipo di forza fisica e, come sostiene il regista, sarebbero in grado di sbriciolarsi anche solo aprendo una porta.
I dissennatori sono però esseri temibili poiché si nutrono della felicità dei personaggi, lasciandoli soli a crogiolarsi nell’afflizione dei ricordi più tristi. Sono quindi distruttori della psiche e, come suggerisce Cuarón, oscuri “cugini della Morte”. Come sostiene però un eccezionale Michael Gambon, che da questo film veste i panni del professor Silente, c’è sempre qualcosa in grado di riportare la spensieratezza a quei ragazzini sopraffatti dalle loro emozioni. Una luce nell’oscurità è sicuramente l’ippogrifo Fierobecco: questo animale immenso è un altero e giocoso alleato dei protagonisti. Fierobecco, magistrale lavoro di meccanica (con tre versioni in animatronica) e CGI, permette ad Harry, in una bella sequenza, di liberarsi per un po’ dai tormenti che lo affliggono. Così il ragazzo sul dorso di un destriero imprevedibile sorvola il gigantesco castello e si fonde all’interno del paesaggio che, per la prima volta, vediamo più generoso nei confronti dei giovani maghi. Anche in questo capitolo della saga, la foresta proibita continua a celare, nelle sue profondità, creature pericolose, ma ora i personaggi si muovono al suo interno con più confidenza, dopotutto anche la foresta fa parte di Hogwarts.
Cuarón conosce gli adolescenti, come ha dimostrato in Y tu mamá también – Anche tua madre, e ha deciso di concentrarsi su questo aspetto per realizzare il suo capitolo della saga fantasy. Harry Potter è quindi sì alle prese con un villain crudele e spietato, a quanto si dice, ma al tempo stesso sente sempre di più il peso del suo essere orfano. Guarda la foto del viaggio di Ron con la sua famiglia con sconforto e vede nel professor Lupin, interpretato da David Thewlis, una figura da seguire e ascoltare, un mentore che, tra le altre cose, conosceva molto bene i suoi genitori. Infatti l’amorevole Hagrid non basta più, Harry ha bisogno di un esempio, di qualcuno da seguire. Ecco così che Sirius Black, a cui dà volto un indimenticabile Gary Oldman, che in un primo momento si presenta come villain della storia, si rivela in seguito l’unica speranza di Harry per avvicinarsi alle sue radici e avere una famiglia. Questo incontro è infatti il primo vero ricordo felice di Harry, la chiave essenziale per un cambiamento decisivo nell’identità del personaggio.
La scena in cui Harry salva Sirius e sé stesso dall’assalto dei dissennatori è la prima in cui il ragazzo dà prova delle sue abilità magiche e Cuarón lo mostra al pubblico attraverso un forte dinamismo della macchina da presa che, con la sua potenza espressiva, dapprima raccoglie la luce nella bacchetta di Harry e poi la sprigiona in un progressivo rilascio tensivo di un unico fascio luminoso che si contrae e rilassa più volte, quasi come se volesse travolgere anche gli spettatori. L’intensità della scena è poi seguita da una sequenza estremamente adrenalinica che porta, anche nelle sequenze successive, a un crescendo di emozioni sempre più in contrasto con le tonalità cupe dell’inizio del film. E per Cuarón l’unica possibilità per non perdere l’hype creato è concludere l’opera utilizzando un freeze-frame che riesce anche a distanza di sedici anni, e ad ogni visione, a mantenere intatta quella tensione emotiva.
Carolina Minguzzi