Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
La concomitanza tra la primavera e la nascita di Alda Merini è una curiosa coincidenza che anticipa il viaggio esistenziale della poetessa milanese, scandito da tempeste emotive, germogli di idee e preghiere sincere. Le tappe della sua vita, dall’infanzia negli anni della seconda guerra mondiale alla vocazione spirituale, dalle cure psichiatriche alla tarda riscoperta presso il grande pubblico, meritano di essere ricordate ancora oggi per comprenderne la ricchezza e per restituirne un ritratto il più fedele possibile, in grado di superare la riduttiva dicotomia genio-sregolatezza.
Caparbia, schietta e dolcemente cinica, Alda Merini senza dubbio ha esplorato i meandri più oscuri della psiche e parallelamente ha conosciuto le vette più alte dell’intelletto, abbandonandosi con completa umiltà a una profonda spiritualità.
La formazione atipica e il sostegno familiare modesto non le impediscono di esordire nei primi anni Cinquanta con le raccolte La presenza di Orfeo (1953), Paura di Dio e Nozze romane (1955), che assicurano una fortuna precoce da parte della critica che riconosce in lei una sobrietà lirica e una concentrazione stilistica esemplari.
I periodi di degenza negli ospedali psichiatrici faranno tacere la sua voce per oltre un ventennio e solo negli anni Ottanta il suo discorso sarà rilanciato, collocandola tra gli autori più significativi della stagione letteraria di fine secolo. Le raccolte di questi anni schiudono il contrasto tra la pulsione dei sensi e la tensione spirituale, una simbiosi tra erotico e mistico cui risponde il problema della nevrosi, il tòpos principale della sua poetica che non è solo un dato biografico ma risulta essere la componente essenziale della sua arte. I versi di Alda Merini inevitabilmente recano, infatti, il segno doloroso dell’esperienza in manicomio, una parentesi che comunque non sembra disumanizzarla, ma si offre anzi quale fonte a cui attingere: se nelle sue creazioni trovano spazio le ragioni poetiche di una sofferta condizione psicologica, la reclusione tuttavia non ha scalfito una sua toccante aspirazione alla pienezza di vita, che trova piena realizzazione nel mondo della poesia.
Le prime raccolte manifestano una limpida lucidità che razionalizza anche i sogni più conturbanti, le riflessioni più amare, i dubbi più divoranti. Il tormento emerge anche nella sua ultima produzione di prose lirico-narrative, in cui si rintraccia il tema della follia, affrontato con struggente sincerità: alla consapevolezza di essere additata come “pazza” corrisponde, d’altro canto, l’ammissione della propria diversità, la coscienza di avere toccato i punti nevralgici dell’esistenza e di averne palesato le incongruenze.
“La malattia mentale è una grande perfezione dell’anima. La demenza è una perfezione intellettuale. La follia merita i suoi applausi”, affermerà in un’intervista.
Il bisogno urgente di condividere i propri pensieri è frutto di una volontà comunicativa che la spinge a rivolgersi costantemente ad un interlocutore, sottolineando la dimensione dialogica che non a caso acquisterà una conferma ulteriore in occasione di dibattiti pubblici, interviste e confronti in programmi televisivi. A tal proposito, l’uscita della raccolta Vuoto d’amore nel 1992, presso l’editore Einaudi, consente un risarcimento tardivo che fa puntare su di lei i riflettori dei media contemporanei come alcuni talk show in cui non manca di regalare la propria visione sulle assurdità del vivere.
Il 13 aprile 2008, ospite della terza edizione del programma Il senso della vita (Canale 5, 2005-2008, 2011), Alda Merini si concede ad una illuminante intervista con Paolo Bonolis in una delle sue ultime apparizioni sul piccolo schermo, sostenendo: “La vita non ha senso, anzi è la vita che ti dà un senso. Sempre che noi la lasciamo parlare. Perché prima dei poeti parla la vita. Dobbiamo ascoltarla la vita”.
E alla domanda: “Pensa che la mente di un poeta sia più vulnerabile di quella delle altre persone?”, sorridente risponde: “Il poeta soffre molto di più, però ha una dignità che non si difende neanche alle volte. È bello accettare anche il male. Una delle prerogative del poeta, che anche è stata la mia, è non discutere mai da che parte venisse il male. L’ho accettato ed è diventato un vestito incandescente. È diventata poesia. Ecco il cambiamento della materia che diventa fuoco. Fuoco d’amore per gli altri, anche per chi ti ha insultato”.
Questa quiete pronta ad esplodere in massime e aforismi ritornerà un anno dopo, poco prima della sua scomparsa il primo novembre 2009, nel docu-film Alda Merini, una donna sul palcoscenico, in cui chiarisce l’esigenza di essere un “curatore di anime”, una salvatrice per noi uditori e lettori, che a distanza di novant’anni sentiamo ancora la necessità di ritornare alla voce di questa “pazza della porta accanto” che risuona nei riflessi di un tramonto sui Navigli.
Leonardo Pacini