Salvatore Quasimodo nasce in Sicilia, a Modica, nel 1901; all’età di diciotto anni parte verso il nord Italia e tutta la sua opera è lacerata da questa ferita e dal dolore generato dalla sua condizione di esule. Quasimodo infatti intrattiene con la costa mediterranea un rapporto intimo e profondo: la Sicilia dell’infanzia e dell’adolescenza sarà sempre il suo mito. Egli si sente un “siculo-greco”, per via delle origini dei suoi nonni, tanto da arrivare a mitizzare la sua biografia, affermando di essere nato a Siracusa. La Sicilia e Milano, città in cui si trasferirà, saranno così i due poli attorno ai quali ruota tutta la sua poesia: da una parte una Sicilia come memoria, dall’altra una Milano del presente.
Un sole rompe gonfio nel sonno
e urlano alberi;
avventurosa aurora
in cui disancorata navighi,
e le stagioni marine
dolci fermentano rive nasciture.
Io qui infermo mi desto,
d’altra terra amaro […]
Lontano dalla Sicilia, il poeta è «infermo», come se la sua terra e il suo mare fossero una sorta di “protesi” del suo corpo. Il paesaggio rappresenta la fonte di una straziante malinconia e la causa di una sorta di smarrimento esistenziale, per questo motivo è onnipresente in quasi tutta la sua poetica.
Sulla sabbia di Gela colore della paglia
mi stendevo fanciullo in riva al mare
antico di Grecia con molti sogni nei pugni
[…]
Il sentimento di appartenenza, di amore e fascino verso il Mediterraneo lo porta a fondersi con esso, creando un rapporto intimo e privilegiato. La solitudine di Quasimodo nasce dallo sradicamento esistenziale dell’uomo, dalla condizione di perenne esule dalla sua infanzia, e la sua angoscia esistenziale si origina dalla rievocazione del tempo passato, nella lontananza fisica e spirituale con la sua terra.
Ad eccezione di alcune poesie che fanno esplicitamente riferimento a un luogo preciso, i paesaggi descritti nelle prime tre raccolte di Quasimodo (Acque e terre, Oboe sommerso, Erato e Apollion) sono astratti, staccati dal reale; la natura è immobile e silenziosa, l’uso del plurale conferisce al paesaggio una dimensione assoluta. Tutto sembra appartenere ad un mondo primitivo e onirico:
Di te amore m’attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d’aranci,
o d’oleandri, sereno,
[…]
Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se infanzia o amore,
ansia d’altri cieli mi volge,
e mi nascondo nelle perdute cose.
Durante gli ultimi anni della sua vita, Quasimodo compie numerosi viaggi; quest’apertura al mondo porta nella sua poesia alla presenza di paesaggi nuovi, non più unicamente mediterranei.
Ancora una città straniera: friabile
la sera, dune le case nell’alga
della luce su ogni chiglia di neon
e mi rispondo come
se l’Isar fosse fiume della mia isola.
L’acqua del fiume Isar si fonde con quella della terra natale, tanto che il poeta arriva a confondere le loro rive, mostrando così una sorta di disinteresse nella descrizione di un paesaggio diverso.
L’ultima raccolta dal titolo Dare e avere (1966) coincide con il superamento di una nuova tappa: se nelle prime raccolte si osservava un continuo tentativo di immedesimazione dell’io lirico negli elementi paesaggistici e naturali, qua tale immedesimazione diventa fusione.
Durante tutta la vita, dunque, Quasimodo stabilisce un rapporto viscerale col paesaggio mediterraneo: l’iscrizione delle sue origini e i continui riferimenti al suo passato si possono leggere come tentativo di rimarginare la ferita provocata dallo sradicamento e dai suoi continui spostamenti. Il poeta siciliano conferisce allo spazio che lo circonda una dimensione spirituale: vi si proietta e poi vi si fonde insieme.
[…] a questa quiete di cieli in rovina
accade l’infanzia inesistente.
Nei moti delle solitudini stellate,
al rompere dei grani,
alla volontà delle foglie,
sarai urlo della mia sostanza.
Ilde Sambrotta