D. Hunter è un attivista e milita negli ambienti della sinistra inglese, è l’autore di Chav: solidarietà coatta, di cui è anche il protagonista, ma è soprattutto un chav.

Il suo libro, edito da Alegre edizioni nel 2020 e scovato casualmente dal suo traduttore Alberto Prunetti, non è di facile catalogazione. Chav: solidarietà coatta è in parte un memoir in cui D. Hunter racconta le violenze e gli abusi che hanno caratterizzato la sua infanzia e adolescenza nelle periferie di Nottingham e il successivo periodo in un ospedale psichiatrico all’età di ventiquattro anni, fase paradossalmente illuminante, in cui si avvicina agli scritti di Gramsci e Angela Davis, che lo porteranno a diventare un attivista e a impegnarsi politicamente nelle realtà più anarchiche e di sinistra dell’Inghilterra. La maggior parte di questi episodi, si lega inevitabilmente a riflessioni politiche e sociali dell’autore stesso, molto critico verso l’atteggiamento classista ed escludente della middle class inglese, ma in alcuni casi anche verso l’incoerenza e la superficialità di quegli ambienti ritenuti più sovversivi e rivoluzionari di cui lui stesso ha fatto parte.

Hunter stesso definisce il libro come una serie di saggi autobiografici su classe, traumi e movimenti sociali. Decide di mettere a disposizione la storia della sua vita come testimonianza di quella parte di popolazione che non viene mai rappresentata e che, anzi, viene completamente ignorata se non bistrattata, maltrattata, derisa. Ma Hunter non è e non vuole apparire come una vittima del sistema e non cerca conforto neə lettorə. Ribadisce che lui e la sua gente non sono vittime, ma oppressi. Infatti, non risparmia niente aə suoə lettorə, che vengono continuamente travoltə da un vortice di emozioni contrastanti, di terrore, disgusto, incredulità, ma anche tenerezza e profondo amore verso i propri simili, i cosiddetti chav. Scrive Hunter che:

Il termine chav è un modo semplice per disumanizzare un vasto gruppo di persone che reagisce con noncuranza nei confronti di chi ha beneficiato della loro espropriazione. […] Per come la vedo io i chav sono persone che vivono nel Regno Unito, nate dopo la svolta neoliberista degli anni Settanta, che proprio a causa di quella svolta sono state traumatizzate, marginalizzate e demonizzate dalle politiche dei governi britannici.[…] E’ una cosa di classe: ti chiamano coatto e dicono che non appartieni alla working class, che stai al di sotto della classe lavoratrice, e non puoi uscirne. Appartieni all’underclass, al sottoproletariato, per sempre.

I chav, che nella traduzione italiana diventano coatti, sono gli oppressi, i reietti, i corpi sfortunati, offesi e abbandonati da un sistema capitalista discriminatorio e giudicante. “Our bodies are classed, i nostri corpi sono intrisi di connotazioni di classe, e i corpi delle persone senza capitale valgono meno.” Il vero problema secondo Hunter non dipende solo dall’estrema povertà di una classe sociale, ma sta in un tipo di società in cui l’obiettivo più importante a cui ambire è la ricchezza materiale, e una persona ha valore solo se è capace di ottenerla e conservarla. Hunter condanna la società inglese che si deresponsabilizza davanti alle persone povere e working class e che allo stesso tempo condanna le loro reazioni alle politiche imposte. I chav sono considerati ignoranti, gretti, persone senza alcuna speranza, ma Hunter racconta tutta un’altra storia. L’autore parla della fluidità della working class:

Erano relazioni di fiducia tra persone multietniche e pansessuali, con un’identità di genere fluida. Rispetto a chi ha trascorso i primi dieci anni della propria vita in un ambiente bianco e recintato, con ruoli di genere prescritti rigidamente e in cui la sessualità non era messa in discussione, quel periodo della mia vita è stato di apertura mentale e di trasformazione.

 Uno degli aspetti che colpisce subito delle riflessioni di Hunter, e che compare anche nel sottotitolo del testo, è la pura e disarmante solidarietà coatta, ovvero il prendersi cura gli uni delle altre, riconoscendosi come le uniche persone amiche di cui fidarsi, creando dei legami indissolubili nel bene e nel male, andando incontro insieme a traumi e violenze. In uno dei capitoli, Hunter descrive la sua storia di “amore selvaggio”, come lui stesso lo definisce, con Valerie, anche lei una chav. Parla del loro rapporto in modo molto crudo, ma allo stesso tempo mostrandolo come un amore viscerale. La loro modalità di dimostrarsi amore avviene letteralmente scavando nei propri dolori più reconditi:

Quando ci picchiavamo a vicenda, quando lei smise di tagliarsi per tagliare me, era per permettere all’uno di entrare nel dolore dell’altro. Era la cosa più vicina all’amore che avevamo mai conosciuto e non ci interessava condividerla con nessuno.

Non solo Valerie, anche Samantha, lə suə amicə sex workers, gli amici dell’adolescenza con cui prendeva qualsiasi tipo di sostanza, erano tutte persone con cui aveva sperimentato una solidarietà profonda e sincera. Come sincero è anche il modo di raccontare di Hunter, senza filtri né fronzoli, senza vittimizzare le esperienze proprie e degli amici, di chi non ha avuto possibilità di scelta ma, allo stesso tempo, condannando e criticando la parte più progressista della società che, nonostante si trovi dalla parte dei più deboli, ha avuto comunque il privilegio di una scelta.

Ho trovato difficile far parte di movimenti sociali in cui i miei compagni avevano l’aspetto, si muovevano e parlavano come i miei giudici, i miei assistenti sociali e le vittime dei miei furti.

Di privilegio continua a parlarne anche in riferimento alla propria esperienza. Può sembrare incredibile come una persona cresciuta tra abusi e mancanze riesca a prendere coscienza di essere, sotto alcuni aspetti, privilegiata. Hunter in più di un’occasione riconoscere come l’essere un uomo, bianco e cis gli abbia salvato la vita.

Immaginate se fossi passato attraverso le stesse esperienze della mia vita ma da donna. Considerati i tanti stupri che ho subito, probabilmente sarei rimasta incinta. Per svariate ragioni avrei dovuto scegliere di far nascere il bambino e di crescerlo. […] Se fossi stata una donna mi avrebbero visto come una che si prendeva troppo spazio, che aveva bisogno di aiuto, che prosciugava risorse, invece di spendersi e sacrificarsi. Se invece non fossi stato bianco, ma fossi passato attraverso le stesse esperienze della mia vita, allora mi avrebbero arrestato più spesso.

Il suo essere un uomo bianco gli ha permesso sicuramente di sopravvivere, ma dall’altro lato gli ha lasciato sulle spalle il fardello di una mascolinità tossica, quasi impossibile da eliminare. Durante il corso della sua vita, ha sempre dovuto dimostrare di essere forte e ha utilizzato spesso la violenza come metodo risolutivo nella maggior parte delle occasioni. I maschi bianchi, scrive l’autore, sono i primi beneficiari dell’oppressione violenta della società, e per questo dovrebbero anche rendersi responsabili dello smantellamento delle strutture d’oppressione.

Dunque, nonostante l’autore faccia parte di una minoranza vessata (la sua famiglia ha origini rom), nella prima parte della sua vita non è immune dal mostrare cattiverie e razzismo. Frequenta spesso lo stadio con il padre, un uomo duro, un hooligan di estrema destra che lo cresce a pane e violenza. Solo parecchi anni dopo, Hunter prende coscienza del suo razzismo interiorizzato, riconosce di essere anch’egli un oppressore, nonostante sia un oppresso allo stesso tempo, e dedica il suo tempo impegnandosi nella giustizia per i migranti, perché crede fermamente che solo con la formazione e l’educazione si possano smantellare le strutture del suprematismo bianco.

La sopravvivenza dei nostri vicini deve diventare la nostra sopravvivenza. Non sarà semplice. Siamo stati addestrati a evidenziare le nostre differenze, per far vedere che non siamo tutti uguali, nella maniera in cui comunichiamo, in cui ci vestiamo o nel modo in cui passiamo il nostro tempo libero. Siamo stati addestrati a essere critici verso gli altri, a giudicarli, a dare per scontato che le nostre risposte sono quelle giuste e che dobbiamo insegnare a quelli diversi da noi, e non imparare da loro, soprattutto se sembra che abbiano meno potere di noi.

Dunque, quello di Hunter è un doppio movimento; da un lato continua a rivendicare con fierezza l’appartenenza all’ estrazione sociale dei chav, dall’altro, invece, si sottopone a un processo di de-chavizzazione. Grazie alla permanenza nell’ospedale psichiatrico, si appassiona alla lettura, scopre i Quaderni dal carcere di Gramsci e se ne appassiona, così come si appassiona agli scritti di un’altra reclusa, Angela Davis. Da lì comincia il suo periodo di riscatto, in cui decide di iscriversi all’università, di diventare un attivista, di prendere parte al cambiamento del mondo. Riesce ad emanciparsi e a spogliarsi degli aspetti più deleteri di quell’underclass a cui appartiene (razzismo, mascolinità tossica, violenza), ma senza mai rinnegarli o nasconderli. L’autore ci dimostra dunque che tutti e tutte abbiamo bisogno di riconoscere le condizioni che servono per emanciparsi, per poi un giorno riuscire a salvarsi insieme.

Matilde Alvino

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