Ada brucia (Effequ, 2020), opera prima di Anja Trevisan (classe 1998), è un romanzo potente e pieno di paradossi, se non controverso, per certi aspetti.

La storia di Ada, in realtà, è tante storie diverse allo stesso tempo, tutte autentiche, reali. Ada non esiste, o almeno non esiste allo stesso modo per tutte le persone che la conoscono. È in realtà Beatrice per la sua famiglia e per le persone del suo paese. Per Rino, invece, diventa Ada dal primo momento in cui decide di strapparla via dal passeggino e di nasconderla in casa con sé nel giorno della festa di San Pancrazio.

Prima di andare a dormire, quella notte: << Quando non c’eri non avevo una vita. Quando non c’ero, neanche tu l’avevi.>> Una carezza leggera, un sospiro, e stanno insieme, da adesso a, spera Rino, tutto il tempo che rimane.

Durante il corso degli anni, la casa isolata di Rino, tra i boschi dell’Umbria, diventa il mondo di Ada, tutto ciò che può vedere e toccare è chiuso in quelle mura e non può uscire fuori perché senza scarpe brucerebbe, e non esistono scarpe per bambine, le ha detto Rino. Ada, però, guarda fuori dalla finestra, vede gli alberi e i fiori, a volte la pioggia, ma non riesce a capire a cosa servano. Ha sempre paura di incrociare con lo sguardo un altro essere umano, se lo vedesse sarebbe pronta a correre insieme a Bapu, è così che lei chiama Rino, in cantina come hanno provato tante volte, così da non farsi vedere. Bapu è l’unica persona buona che esiste, tutte le altre sono cattive e lei deve stare attenta a non farsi trovare. Inconsapevole del mondo oltre gli alberi che circondano la casa, Ada è la vittima perfetta, proprio perché non sa di esserlo. La vita, dal suo punto di vista, è un susseguirsi di disegni, giochi, corse in cantina e bagnetto con Bapu. Nella semplicità di queste giornate, Ada trova il suo equilibrio e la sua serenità, proprio per questo lə lettorə potrebbe trovarsi spaesatə e confusə. Da un lato, è facile provare un senso di disgusto e di rigetto nei confronti di Rino e dei suoi comportamenti, dall’altro lə lettorə deve fare i conti con le emozioni e i sentimenti dei due protagonisti e con il loro amore che, per quanto sia tossico e malato, esiste.

Al centro della narrazione, dunque, non c’è il tema della pedofilia, e Ada non è una nuova Lolita, così come Rino non è il colto professore Humbert, ma un umile artigiano. Ada rifugge il ruolo di ninfetta, non seduce, non  affascina, non esiste solo in funzione del piacere dell’altro, anzi partecipa del suo stesso piacere fisico, e nonostante ciò mantiene intatta la sua innocenza di ragazzetta che non sa, non conosce la verità. L’intento dell’autrice, infatti, non è quello di feticizzare o di creare scandalo, ma quello di analizzare il rapporto adulto-bambino come fosse un esperimento in cui, in questo caso, la bambina non conosce alcuna regola civile, se non quelle insegnatele da Bapu, ed è priva di qualsiasi sovrastruttura sociale.

Dunque, come ci si comporta davanti a una relazione basata sulla segregazione (anche se non percepita) e che non solo non è sana, ma condannabile socialmente e penalmente? Eppure, l’amore tra i due protagonisti è sincero dal loro punto di vista. Rino  è consapevole che quello che ha fatto, strappare via dalla sua famiglia una bambina piccola, è un atto profondamente sbagliato, ma continua a giustificarsi e a cercare delle ragioni per legittimare il suo gesto.

Deve sentire che in qualche modo il destino è dalla sua, che questo amore non è sbagliato ma vale quanto gli altri. Vale quanto gli altri, o forse anche di più, perché è il suo. No, il loro. Di loro due.

D’altronde, Rino non fa mai del male ad Ada, anzi per lui è una gioia il solo averla vicina e il suo obiettivo è proteggere il loro amore da tutti gli agenti esterni che potrebbero ostacolarlo. L’atto sessuale fra i due arriverà a compimento solo dopo anni, perché Rino non ha alcuna intenzione di turbare e traumatizzare Ada. L’unica cosa che conta per lui è darle tutto ciò di cui ha bisogno. Al tempo stesso, però, Ada è privata di molte cose: da bambina non possiede giochi o bambole perché Rino non può permettersi di far insospettire gli abitanti del loro piccolo paese; crescendo, quando Ada inizia a perdere sangue, Rino non le comprerà neanche degli assorbenti e lei sarà costretta a girare costantemente con un asciugamano intorno alla vita.

Proteggere il loro amore significa allo stesso tempo condannare Ada alla prigionia. La più grande paura di Rino non è quella di essere scoperto, la prigione non lo spaventa. Quello che non sopporterebbe mai è l’allontanamento dalla sua Ada, per questo motivo non permetterebbe mai che qualcosa possa intromettersi nel loro amore.

Il prato è il limite; no, la veranda è il limite.

Il meccanismo di questo rapporto tossico si basa sul possesso e sul rapporto di potere, in cui Bapu decide tutto quello che Ada può e non può conoscere, tutto quello che può e non può fare, vedere, sentire, mentre lei si fida e si affida completamente al suo carnefice, perché non ha altri termini di paragone. Il senso di colpa di Rino viene sempre alleviato dal pensiero che egli si ritiene in realtà il salvatore della piccola Ada, come se entrambi fossero destinati a incontrarsi e a chiudersi in questo rapporto morboso che non permette nessuna interferenza.

Però l’unico colpevole è lui. Anche senza averle fatto del male. Ma sa anche che Ada non si chiama Beatrice, quel nome non le appartiene. Ada così doveva crescere, e così dovrà ricordare la sua vita, se mai cambierà. E così doveva essere amata, in questo modo e da lui, che solo lui poteva darle questa vita. Ed è stato giusto nonostante tutto, pensa Rino mentre le dita di Ada, con naturalezza, si intrecciano alle sue.

Nella casa descritta da Trevisan, per quanto da parte di chi legge si percepisca tutta la depravazione di questo rapporto malsano, i due protagonisti respirano invece aria d’amore e di pace.

Il contrasto più evidente sta proprio nel fatto che le dimostrazioni di affetto di Rino verso Ada si realizzano però attraverso privazioni. Il buon Bapu, colui che professa di amarla, è in realtà il suo manipolatore, e plasma la realtà di lei a suo piacimento. L’inconsapevolezza della situazione da parte di Ada permette a Rino di agire nel modo più libero possibile e di avere un’influenza totalizzante su di lei. Ada, infatti, stravede per lui; ogni volta che lui va via di casa conta i minuti che mancano al loro ricongiungimento, e non riesce quasi mai ad addormentarsi se lui non le sta vicino. Ada è triste quando perde sangue e sa che Bapu non le si avvicinerà.

Anche quando Max entra nella vita di Ada le cose non cambiano. Quando Ada conosce questo ragazzino, all’inizio è molto diffidente nei suoi confronti; anche quando capisce che non è cattivo e non vuole farle del male e inizia ad avere una certa attrazione verso di lei, non riesce a trovare il coraggio di abbandonare la casa di Bapu, il senso di colpa è troppo forte.

Nonostante Ada scopra che non è vero che i suoi piedi bruciano se li appoggia a terra, e che le scarpe della sua misura esistono, non riesce ad incolpare Rino per tutte le bugie che le ha detto, anzi si sente costantemente in colpa a vedere Max di nascosto senza poter dire nulla al suo Bapu.

Ada gli accarezza i capelli corti con i polpastrelli, segue il profilo del suo orecchio e poi della sua mandibola, va a finire sulla punta del naso in cui incontra una lacrima. Il suo Bapu, il suo amore, la sua vita, il suo destino. Le avrà detto un sacco di bugie, forse, e forse l’ha rapita tanto tempo prima, così tanto che non lo ricorda, e forse è vero che fuori non brucia niente, e forse è vero che Max le vuole bene, ma Bapu rimane lui, il solo, l’unico […] Potremmo rimanere così per sempre, pensa Ada. Il mondo fuori, all’improvviso, non le interessa più: non può essere più bello di questo.

Nonostante Ada scopra insieme a Max cosa c’è oltre gli alberi di casa sua, e scopra tutta la verità sul suo rapimento, non riesce a provare rabbia per Rino, anzi continua ad amarlo e ad immaginare la vita insieme a lui. Una sorta di sindrome di Stoccolma in cui la vittima non riconosce il suo carnefice come tale. I due saranno costretti a separarsi, Rino finirà in prigione, mentre Ada passerà del tempo in un ospedale psichiatrico per poi ricongiungersi con la madre Cecilia e con Max, che continuerà ad amarla nonostante le resistenze.

La loro vita ruotava intorno all’immobilità di Ada, al vuoto che si era creata intorno e che stava risucchiando tutti. L’unica cosa che le interessava era vedere Rino. Loro lo sapevano, ma preferivano ignorarlo.

Il trauma più doloroso per Ada, dunque, è la separazione da Rino e lo stesso è per lui. Il sogno di una vita insieme viene distrutto, così come viene abbattuta la casa in cui avevano vissuto il loro idillio.

Il romanzo di Trevisan mostra, senza giudizio, una storia durissima in cui giusto e sbagliato si confondono, e in cui il feticismo è neutralizzato (ma non romantizzato).

Matilde Alvino

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