ART&SOUND
regia di Ulrike Ottinger, 2020
Dalla vetrina della libreria Calligrammes in Rue du Dragon, la Parigi del 1962 non è poi così grande come poteva sembrare agli occhi di una giovane ventenne approdata dalla Germania con il sogno di diventare un’artista. Per delineare il proprio autoritratto, Ulrike Ottinger non può fare a meno di ritrarre la città che ha formato la sua poetica e le menti creative che a loro volta hanno plasmato la capitale francese.
Come i calligrammi di Apollinaire, omaggiati dal nome della storica libreria dell’antiquario ebreo scappato dal regime nazista Fritz Picard, Parigi prende forma dal racconto del ricco archivio di immagini lasciate fluire nel montaggio di Anette Fleming. Una visione densa, guidata dalla voce fuori campo di Ulrike che si fa flaneur tra linee temporali che si succedono e si sovrappongono a partire dai luoghi chiave che caratterizzavano la vita culturale degli artisti e intellettuali che li frequentavano, dal periodo delle avanguardie storiche alla nascita della Nouvelle figuration.

Calligrammes: Poèmes de la paix et de la guerre, 1913–1916
I ricordi filmici scaturiscono dai luoghi attraversati e dagli oggetti custoditi; così ci troviamo a girare le pagine del quaderno di Picard facendo conoscenza con le personalità che lo stipavano di estrosità calligrafiche: Tristan Tzara, Hans Richter, Hans Arp, Max Ernest, Walter Mehring, Jacob Taubes, Paul Celan, Hubert Von Ranke, Annette Kolb, Julien P. Monod e Marcel Marceau. Mentre i café Select e Dome sono ancora frequentati dalla “vecchia avanguardia” scalzata a suon di Pop Art, il colore delle tele assemblate in bande dessinée, troppo grandi per la piccola soffitta nel quartiere latino, colmano l’inquadratura succedendosi come se gironzolassimo nella galleria d’arte di Ileana Sonnabend.

Paris Calligrammes non si limita ad essere un affezionato diario di ricordi di gioventù, né la cartolina turistica di una città viva di stravaganze: tra l’impertinente glossolalia dadaista di Raoul Hausmann e la danza di Florimond Dufour, il pattinatore solitario di Robert Doisneau col suo grammofono portatile, la regista non nasconde che Parigi è anche abitata dalle tracce della morsa colonialista sull’Africa. Mentre si combatteva la Guerra D’Algeria, i cittadini algerini, già relegati alle bidonville, vengono gettati a centinaia nella Senna dai garanti dell’ordine e del decoro, con la complicità del prefetto Papon, che sotto il governo di Vichy del generale Pétain aveva fatto la sua gavetta deportando gli ebrei francesi.
Al massacro del 17 ottobre 1961 segue il silenzio, rotto solo nel 1966 grazie al direttore del Théatre de l’Odéon Jean-Louis Barrault. Uno dei pochi a sostenere dall’inizio autori scomodi come Becket e Artaud, l’unico a osare mettere in scena Les Paravents di Jean Genet, accolto da lanci di uova marce, fumogeni e ratti morti.
La leggenda dell’Odéon ha fine proprio a causa di un’altra manifestazione, quella degli studenti nel maggio del ’68: offerto da Barrault come libera piazza, viene occupato e depredato con un ammutinamento. La fratture ideologiche lasciate dal movimento studentesco fanno sgretolare i rapporti umani e la città rimane paralizzata senza luce e invasa dai rifiuti.

Ma nel laboratorio alluvionato che condivideva con il post-surrealista Fernand Teyssier, la poetica di Ulrike Ottinger si sposta dal simbolico per tornare alla figurazione narrativa, e per infine avvicinarsi al racconto audiovisivo grazie alle retrospettive della Cinémathèque française: “una nuova arte nella quale potevo incorporare tutto ciò che mi interessava: il passato, il presente e il futuro, la musica e la parola; il ritmo e il movimento; il pubblico e il privato; la politica e la poesia; la gioia e il dolore.”
Senza Henri Langlois e la missione di ricordare (e anche collezionare oggetti improbabili) non sarebbe esistita la più grande cineteca al mondo, ma non sarebbe stato possibile neanche concepire un monumento di found footage come questo.
Se “il dramma di un antiquario è dover dar via il suo tesoro”, come diceva Picard, allora Ulrike ci ha fatto un grande dono, un primo ma già promettente titolo che va a contendersi il premio della sezione Art&Sound al 32° Trieste Film Festival.
Giulia Silano
In copertina: Ulrike Ottinger fotografata da Allen Ginsberg nel 1965.
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