Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro
vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
Invece camminiamo.
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
Con questi versi il poeta ligure Camillo Sbarbaro apre la raccolta Pianissimo, uscita nel 1914. L’intera opera è un canto accorato, un monologo dal tono dimesso, scabro, espresso in endecasillabi. Tutto ruota attorno a squarci di tormento interiore e ad un’angoscia che non sembra trovare conforto alcuno. Il poeta è un uomo che cammina, rassegnandosi ad una condizione di vita segnata dall’indifferenza.
La poesia sopra riportata è tutta incentrata sullo smarrimento dell’identità e sulla rassegnazione dell’anima; non c’è spazio per nessun sentimento, si cammina per inerzia, in una realtà dove tutto è quello che è, soltanto quello che è. Ed ecco che, come visto per Pasolini, anche Sbarbaro si mette a camminare: egli è però solo con sé stesso, immerso in una realtà nella quale vaga come fosse un semplice spettatore.
In questi versi troviamo i temi fondamentali della poesia di Sbarbaro e dell’intera raccolta Pianissimo, il cui titolo è perfettamente in linea con l’intenzione del suo autore: il poeta crea un colloquio interiore con la sua anima, invitandola al silenzio, perché ormai risulta incapace di reagire di fronte alle cose. L’uomo è ridotto a un sonnambulo, a spettatore di sé stesso e della propria vita nella quale non gli resta che muoversi in modo automatico, privo di reale interesse e coinvolgimento. Tale senso di vuoto e di estraneità trova la sua apoteosi nell’immagine finale del deserto, luogo di solitudine e di assenza, che non fa altro che accentuare il sentimento di aridità esistenziale.
L’intera raccolta Pianissimo è caratterizzata da un tono arduo, fortemente pessimista; Sbarbaro manifesta esplicitamente la sua solitudine interiore e il vuoto che lo circonda, e l’unica via di fuga è il sonno. È durante la notte che il poeta vive davvero, ed è qui che si rifugia:
Quando traverso la città la notte
Io vivo la mia vita più profonda.
Nella notte e nel buio tutto è silenzioso: proprio il silenzio e più precisamente il verbo tacere rappresenta la stanchezza del vivere, come rivelano i primi versi della poesia vista sopra: «Taci, anima stanca di godere / e di soffrire».
Si nota tuttavia una certa ambiguità del poeta di fronte al buio e alla notte, perché non sempre hanno un valore positivo, di rifugio sicuro ma, in alcuni casi, si assiste ad una sensazione di paura nel ritrovarsi solo e isolato dal mondo:
Improvviso terrore mi sospende
il fiato e allarga nella notte gli occhi.
Separata dal resto della casa
separata dal resto della terra
è la mia vita e io son solo al mondo.
L’influsso più vicino a Sbarbaro è sicuramente quello dei crepuscolari, coloro che all’inizio del ‘900 esprimono il vuoto esistenziale, adottando un atteggiamento di abbandono nei confronti della vita. Ma, accanto all’influenza crepuscolare, Sbarbaro prende Baudelaire come modello tematico principale: la figura del sonnambulo, del camminatore osservatore, l’aridità della vita sono tutte atmosfere già presenti nel poeta francese.
Ilde Sambrotta
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